Non è una Canzone d’Amore

P1100362Ridono e nascono nel va e vieni del mondo tanti mondi profondi che nuovamente vagano e fuggendo, attraverso gli altri, sembrano ogni volta più belli; si concedono nel passare, s’ingrandiscono nel fuggire, svanire è la loro vita. Non sono più preoccupato poiché posso, integro, attraversare il mondo come mondo.” (Robert Walser)

Perdonami Nina, le retoriche da cui abbiamo provato a salvarci ci si ritorcono contro ancora, a distanza di anni. E forse noi mostriamo quel muso di randagio in cerca di un ultimo osso utile, ben sapendo che di carne ne abbiamo consumata tanta, che ci è rimasta sfilacciata nei denti rendendo difficile la prevenzione del tartaro e della carie. Forse le strade vuote che abbiamo imboccato nulla davvero possono che la miseria tipica delle generosità terminali.

Perciò perdonami amore, insisto, anche se in questa scarsa luce del tuo perdono non so davvero che farmene. Non c’è protesta in questo, solo partecipazione muta, come quella che dovremmo dedicare allo strattone di sorriso che mettiamo sulle nuove umanità che ci hanno spodestato.

E oggi che senza un vero perchè ho deciso di ridare fiato a questa parole, sarà la stanchezza del rumore che fai, come una porta trascurata che sbatte negli anni, mettila come vuoi, sarà l’illusione che un perchè possa ancora manifestarsi in questo giro tardivo di dichiarazioni false e tendenziose.

Oppure è stato solo l’altro giorno in metropolitana. Nell’occhiata persa che si riserva al buio della galleria, tra i fantasmi rifratti della gente di cristallo che sta lì pigiata di fianco a te, mi sei apparsa tu. Ti guardavo da un minuto forse già, senza riconoscere altro che una vaga aureola bionda, un’immagine poco definita del viso su cui si percepiva un effetto di ombre approfondite, un’idea complessiva di volto stanco, un poco pesto.

Poi c’è stato un cenno, un micromovimento, come un piccolo scatto nella cui dinamica ti ho riconosciuto istintivamente. Ho guardato meglio. Mi sono immaginato tutta la scena nei minimi particolari. Io che mi stacco dal palo di ferro intorno a cui danzo la mia immobile noncuranza. Io che, nell’ondivaga cinetica del vagone, acciacco piedi e assalto costole, mi profondo in scuse che non sento, finchè tutto il mio corpo sbilanciato afferra alla cieca il nuovo palo di sostegno catturando una tua mano gelata che stringe sotto.

Ecco, in questo punto preciso la scena s’interrompeva, lo sguardo non riusciva a passare oltre. Ho guardato meglio nel buio fitto che correva oltre il cristallo. Mi è apparsa quella tua espressione sarcastica con cui usavi bruciare il pelo superfluo che ci cresceva sullo stomaco. Ho pensato a tutte le volte che i tuoi magnifici glutei voltati si sono arresi all’uomo sbrigativo che mi abita, alla terra di nessuno in cui ti offrivi, al di là di ogni ragione comprensibile, per farti dominare e sciogliere così quella tua rigida anima antiproiettile presso cui sopravvivevi.

Ho guardato ancora il fantasma e ho perso i tuoi connotati nella figura di un volto che sembrava accoglierli tutti. Tutte le donne percorse nell’effigie in una sola, l’unica femmina della mia vita. Quel volto mischiato, deformato, sciolto in rivoli di materia come una pittura allucinata di Bacon, m’è sembrata la smorfia di un Kurtz impallidito nell’attesa che qualche ardito Conrad lo rendesse libero dalla necessità di collezionare il marcio che s’accumula.

Tu sei l’unica donna che io abbia mai avuto. Con questa certezza disarmante sono sceso alla fermata successiva, molle come un ladro sfilando sotto la tua muta occhiata congelata sono sceso dal viaggio, anche se ero appena a metà del percorso che m’ero dato.

Certe volte di notte quando c’eri tu, certe volte m’è venuto di andarmene per sempre, come l’altro giorno in galleria. Ricordi quanto siamo stati infelici quell’estate sotto le palme di Kovalam beach, infelici e trasognati come un paio di inconcluse nuvole che stentano a formarsi all’orizzonte. Piove ad agosto, qui, e noi sceglievamo di restare contro natura a lungo.

Così la febbre m’era salita a quaranta, e forse pure qualche rotella cominciava a ingripparsi nell’aura essenziale di un delirietto incipiente, era per quello, per non coinvolgerti in un piccolo deragliamento fisiologico che mi prende sempre ai tropici che cercavo di evitare la tua presenza. Volevo toglierti un peso dalle spalle, avrei voluto cantarti La Cura con la voce spiritata di Battiato e forse ce l’avrei fatta pure, ottenendo nient’altro che la deflorazione ultima del nostro ventre molle, quella visione insostenibile che avrebbe concluso la nostra storia in quel preciso istante d’universo, ai tropici.

Tu prendesti quel grosso mango maturo dalle belle sfumature arancioni che la direzione della guest house ci aveva fatto trovare infiocchettato sul tavolino di rattan e me lo scagliasti contro. Così io non potei cantare lì sul posto, solo abbassarmi con la velocità del pensiero d’un fulmine, se si considera quanto spossato potessi sentirmi in quelle condizioni.

Sono momenti in cui la vita tutta sfila davanti agli occhi, il mango fece splatch sul muro, e in quel cerbero di secondo io vidi quel brutto essere mutante, con tanto di belle teste issate sul corpaccione incandescente. Nello sguardo fosco della prima appariva manifesto ogni coriandolo di disgusto che i nostri esagerati carnevali ormonali seminavano nell’aria. Perchè stuprarsi vicendevolmente a lungo come capitava a noi non solo non è una garanzia d’amore, né che gli uccellini cantino sempre gli odiosi versi zuccherini di un mattino, ma piuttosto il segnale di un possibile agguato dell’irragionevole da cui difendersi.

Nella mimica disarmante della seconda restava intatto tutto lo stupore infantile che ci aveva fregato la prima volta, quel pensiero che la vita va vissuta per momenti come quelli, e tutta la collezione di scemenze atroci che sanno passarsi sottobanco gli innamorati di primo pelo. La terza e ultima faceva umana pena, credimi, non c’era nulla di registrabile se non il rumore ottuso di un’opera di ricomposizione esausta, il conto dell’entropia che occorre a sostenere una vibrazione di estremi inconciliabili, di tutte le memorie che mangiano speranza.

Ecco qua, mio dolcissimo participio passato, non ho la più pallida idea del perchè io ti stia scrivendo queste frasi. So solo che avevo bisogno di lasciarle correre dentro di me, di scriverle a penna su una vecchia carta lettera bordata, di firmarle con una goccia di profumo, di affidarle all’affanno fisico delle poste moderne, alle lune storte di un postino precario che per ripicca fa fuori nei cestini della straccia una buona metà delle carte da recapitare.

E sto appena ripartendo per l’India, mia unica donna, il Magno tuo sta per imbarcarsi con tutta la trippa esposta del suo essere filosoficamente bulimico, come un legato dell’antica Roma latore di un messaggio che ordina spargimenti di sale sui campi abbandonati di ciò che è stato. E vorrebbe già trombarsi ciecamente tutta la squadriglia di hostess di terra che gli fanno i gestacci di composizione della fila umana necessaria.

Torno a imbucare questa lettera negli sprofondi geografici di Kovalam beach, da dove sarà ancora più difficile che il vuoto messaggio dell’intimo di me possa raggiungerti. E’ risaputo, amore mio, che i postini indiani passano lettere e cartoline al vapore. Lo fanno per staccarne la forma frastagliata del vecchio francobollo, per mettersene il controvalore, furbescamente, nel fondo di una tasca buia inarrivabile.

7 risposte a “Non è una Canzone d’Amore

  1. bellissimo e amaro questo tuo scritto… l’alternanza di poesia e solitudine trasuda ad ogni passaggio di parole, ad ogni pennellata che evapora proprio mentre si legge, come tutte le perfezioni e imperfezioni dell’amore che ci costruisce e ci distrugge nello stesso tempo. Ma la sua forza (o la nostra) si nutre proprio di tutte le lontananze possibili perché ad ogni ritorno la città ha sempre qualcosa di diverso, e forse, anche le canzoni d’amore avranno un altro sapore. Non ci sono “cure”, ma consapevolezze che la vita è un continuo viaggio con tutte le sue scoperte nuove, e i suoi infiniti panorami…
    Sempre bello leggerti !

    • grazie, è un po’ come tu dici, serve allontanarsi per ricreare, l’amarezza è una delle prospettive possibili, la scrittura è anche questo veicolo che permette il falso dell’univocità, del senza sbocco, il tempo che passa poi ripristina sempre il giusto torto o l’ineffabile ragione, e qualche volta ricrea persino una specie di tabula rasa 😉

  2. bellissimo questo racconto, entra dentro come qualcosa di invadente e di struggente. Ti lascia come in un labirinto tra gli alberi, non posso non pensare.

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