Me ne stavo andando e anche di fretta, sbattevo le suole sul catrame molliccio d’agosto senza avere indietro alcuna soddisfazione di impatto né di rumore. Ne avevo una alle spalle, una con un nodo in mezzo agli occhi dove sostava ancora un precipitato nervoso che m’inseguiva da fermo. Ce n’era un’altra poi, la vedevo benissimo, intelligente e appetibile, in qualche punto del futuro che avrei senz’altro raggiunto boccheggiando come uno squalo avvilito. Hai presente come si fa a volare sempre senza rompersi l’osso del collo.
Sfogliavo già l’agendina con drastici colpi di pensiero, e preparavo le birre e i rutti e la finale di coppa dei campioni anche se mancava quasi un anno, anche se la mia squadra stazionava moribonda a mezza classifica, senza alcuna possibilità di recupero. C’era poi una malora tenera, accogliente, cui puntare i capi distanti dell’amaca e schiacciare un dolce pisolino senza sogni. E casa d’amici restava comunque aperta in ogni ora, a ogni peccato.
Mia madre non avrebbe capito e nemmeno io, se solo mi fossi fermato un attimo a considerare che in Australia in quel preciso momento era tutto buio tra Canberra e Ayer’s Rock. E lontano, in qualche anonimo ripostiglio di me, piccoli teppisti sfasciavano ogni cosa ridendo.
Giravo e giravo e giravo per la città imbrattata di traffico. Come una bambolina meccanica bengalese, in attesa di finire le batterie, muovevo la testa e agitavo le gambe senza avere la forza di fermare nè accelerare un solo passo.
Mi sono accorto di esser ripassato per l’ennesima volta davanti alla vetrina di un grande negozio di moda. C’erano i saldi e un sacco di manichini catturati nelle enfasi più strane. C’era anche Lei, piegata in avanti nel busto come certe figure che sembra stiano sul punto di dire qualcosa. E c’era l’altra, sorridente e appetibile, tirata a lucido estremo come quegli oggetti poco affidabili che scontano del 50%.
Sono entrato, ho girato dietro la cassa del megastore e ho preso posto nell’ultimo spazio disponibile della lunga vetrina fronte strada. C’era l’aria condizionata e si stava bene, davvero. C’era bella gente, insomma, mi pareva di conoscerne molti, compreso qualcuno con cui avevo diviso il sangue, e poi tutti gli altri, tutta quella gente che hai sempre sulla punta della lingua e che però mai se ne viene via.
Tempo ne è passato, piacevolmente, assai. E’ arrivato il tramonto a incendiare di porpora i cristalli con le scritte promozionali.
Eravamo intensi e bellissimi.
Fuori non girava nemmeno una macchina.
qui sei adorabilmente fuori e ti leggo intenso come quando hai l’ardire di lasciarti sfasciare la narrazione dai piccoli teppisti del sogno che tieni chiusi a chiave nel ripostiglio (dove, ovviamente, conservi anche l’amaca che appendi alla malora tenera). geniale, poi, la sterzata finale in cui ho visto prendere corpo il genere umano di consumo, un ribaltamento dei ruoli potente, capace di far sanguinare il manichino d’esistenza che ci resta. urticantissimo.