Gesualdo sta morendo, così gli sembra, come fosse stato colpito da due fucilate precise, una al cranio e l’altra al basso ventre. Mentre le gambe gli mancano di colpo e la sua figura magra, piena di ossa sporgenti, precipita sgraziatamente al suolo, lui ha la sensazione struggente e conclusiva di star cadendo con la dignità di una vittima di guerra.
Il frastuono che piove dagli spalti gremiti di tifosi somiglia al respiro furioso di un campo di battaglia. I volti maschi dei giocatori che si chinano su di lui hanno l’espressione sarcastica del nemico che viene a controllare se sei morto davvero e se valga la pena mettersi pure a scavare la fossa lì vicino.
Ebbene lui, Gesualdo Bonvicini, arbitro della massima serie, ammesso che il Giudizio finale sia una buona volta giunto, vorrebbe dire che, di questi tempi, i suoi peccati sono roba di poco conto. Ve li potete dimenticare tutti senza pena, soprattutto di domenica quando il paese s’è arreso, tutto inginocchiato sul legno lucido dei salotti sportivi, con gli uomini ridotti alla statura di zombi e le donne che un po’ perdonano, un po’ bruciano la cena, un altro un po’ ancora si fan cadere le braccia in un capannello distante.
Così è, dalla sua prospettiva di svenuto Gesualdo un po’ sragiona, e come si fa a negarglielo. Provate voi a farvi scoppiare due grassi petardi addosso. Avrete un mancamento, alcune immagini arriveranno come in sogno. L’immagine di chi amate, soprattutto, un viso che suscita tenerezza e rabbia in parti uguali.
Ora però Gesualdo non saprebbe dire se il suo amore perduto sia apparso tra le stelle del cielo che gli entrano in testa, oppure lì accanto nel capannello umano che lo circonda e lo soffoca, o sulle tribune rese vicinissime dallo shock.
Eppure è strano, gli sembra d’averla vista davvero. Quel che è certo, piuttosto, è il gran fastidio che prova, un po’ fisico, un po’ morale.
Qualcuno lo sta scalciando leggero ma ruvido su una coscia.
Gesubon svegliati. Tirati su.
E mi raccomando, Gesubon mio, non fare il coglione.
La partita deve riprendere regolarmente.
Ricordati cosa ci si aspetta da quest’incontro. E’ l’arbitro che comanda.
Come se non t’avessi mai detto niente.
A stento lui riapre due fessure d’occhi. Gesubon, quanto tempo che nessuno lo chiamava più così. Il mondo era ancora tutto chiuso su quel ripido pendio dove le quattro case del paese, Colli di Monte Bove, facevano brutta mostra di sé lungo la vecchia provinciale.
E cosa ci fa Lo Monaco presidente in campo. Se Gesualdo si reggesse bene in piedi, se fosse uomo davvero oltre che arbitro giudizioso e, dicono le alte sfere, assai promettente, gli stamperebbe un bel cartellino rosso sul grugno e manderebbe rapporto alle autorità federali.
Ai dirigenti è severamente proibito l’accesso al rettangolo di gioco, figuriamoci prendere a calci l’arbitro semi-svenuto, cercare di condizionarlo o addirittura intimidirlo.
In un altra vita gli piacerebbe poter essere modello d’imparzialità e ricordare a ognuno, a cominciare dai potenti, che i giochi sono governati da un preciso regolamento che tutti, nessuno escluso, sono tenuti a rispettare. E che furbi e furbetti d’ogni quartiere, qualora ci fossero, dovrebbero vedersela prima di tutto con lui.
Ma il paese è quel che è, lui un’altra vita da spendere non ce l’ha e persino quella defilata che sta vivendo adesso sente che gli risponde davvero poco.
Così l’arbitro Bonvicini fa appello a energie e consapevolezze insospettate e riesce a tirarsi su dalla scomoda umidità del tappeto verde, a spazzolarsi sommariamente con le mani quel tanto di fango che gli si è stampato addosso e a mettersi in marcia, un po’ malferma ma comunque dignitosa, verso l’imbocco del sottopassaggio che conduce agli spogliatoi.
Gesualdo, che avrebbe tutto il diritto di sospendere l’incontro, non può permettersi uno sgarro del genere, ma non ha nemmeno voglia di riprendere subito il gioco. Così trova il coraggio di decretare quindici minuti di interruzione della partita in faccia agli attaccanti esagitati, ai centrocampisti infiammati, ai difensori defilati e allo stesso Lo Monaco, che nella coda del proprio occhio gli appare gravemente preoccupato.
Ora che si sente poco meno che resuscitato, con uno strascico lunghissimo di commedianti pallonari d’ogni ordine che lo insegue fin sulla porta del camerino arbitrale, lui vuole mettersi sotto una doccia calda e ripensare un po’ come tutto è cominciato.
Ebbene, Colli di Monte Bove, si diceva, frazione di vattelappesca, una località arrampicata su una scarpata tale che, se la osservi dall’alto, sembra l’uscita di sicurezza per la servitù dell’inferno.
Ed è laggiù che incontriamo Gesualdo Bonvicini nella sua incarnazione giovane, prearbitrale. Seduto in posizione periferica al tavolino di un baretto, mentre ascolta il racconto mitico di quelli che dal paese sono riusciti ad emendarsi. Vanno via tutti, tutti meno lui, il cui desiderio più vibrante pare quello di divenire cosa morta, dimenticata, di confondersi col paesaggio nel sudario senza tempo che avvolge i Colli del Monte Bove.
Gesualdo, che a un’occhiata superficiale parrebbe buono come una pagnotta calda cotta a legna, passa il tempo pensando a cose sfocate, marginali. E se non fosse per quell’attimo d’incomprensibile follia, la placidità della sua anima d’ignavo trionferebbe su ogni cosa.
Gesualdo ha passato l’età dell’innocenza torturando rane e lucertole, ma il suo vero peccato originale ha l’aspetto spiumato e l’occhio fisso di uno dei polli di Lo Monaco. Quello che sarebbe meglio tacere e dimenticare preme sulle sue labbra con l’ambiguità di ciò che forse desidera sciogliersi in confessione.
E Gesubon si apre, racconta tutto a Santina Reale, detta La Partigiana, per via della guerra di resistenza globale che la ragazza conduce con ardore contro le truppe organizzate del pelo superfluo che giocano a Risiko sulla sua pelle.
Gesualdo e Santina si conoscono fin da piccoli, ma è solo quando s’incontrano per le scale del paese, in quel preciso giorno, che qualcosa succede.
Lui sale con lo sguardo fisso a ipnotizzare i gradoni di pietra, lei scende, abbastanza sgraziata, con la gonnellina-tovaglia al vento, e gli fa:
“Gesubon! Che mi racconti di bello, oggi?”.
Lui non saprebbe che rispondere, potrebbe invece far innamorare il gradone prossimo, tanto intensamente si mette a fissarlo.
“Va bene, Gesubon. Allora non mi raccontare niente!”.
Puntini e puntini e puntini.
Gesualdo trova coraggio e le racconta la facilità con cui il suo coltellino è affondato, le dice di tutto il sangue che gli è schizzato in faccia e l’ha accecato. Le dice aiuto, e tutto il fiato che gli è mancato.
E la sera si slarga dolcemente, la sera umida e molesta che avvolge i Colli e il monte Bove, avvolge il bosco e i fumi strozzati dei caminetti e la voce acuta dei merli che cantano la luce che si perde. Cantano i piloni della nuova autostrada che incombe sul paese come una cancrena maligna, cantano tutto ciò che merita d’esser cantato, il poco incanto che sorge dai boschi e le zucchine smagrite negli orti scoscesi vicino al fiumiciattolo.
Cantano la paura di Santina e Gesubon che somiglia un po’ a quella di tutti, di dar fiato a un’esistenza che sia come una creta indurita, la promessa bugiarda di un petardo inesploso.
Passano settimane e mesi. Il corpo della Partigiana s’ingrossa e s’arrotonda davanti agli sguardi sempre sfuggenti di Gesualdo che ancora non si capacita. Si fissano appuntamenti per le scale e nelle stalle e vicino al ruscello, si vanno incontro come se l’attrazione che li muove dovesse fonderli in un’idea unica, con un unico respiro da spendere. Eppure quando sono finalmente soli, uno di fronte all’altra, a lui mancano le parole e il coraggio che ci vorrebbe per mischiar le mani a tutta quella carne. A lei manca la pazienza e la fantasia, il sottile giramento di testa che l’aveva trafitta mentre lui a mezza scala le raccontava il fiatone del suo piccolo orrore segreto.
Si cercano, si guardano, si baciano un po’ mentre il tempo vola, le stelle girano, la Partigiana cresce fino al punto esistenziale di non ritorno. E Gesubon ci va di mezzo. Con poca grazia e una quinta di reggiseno che minaccia di seminare sfaceli, Santina Reale abbandona il mortifero grembo del monte Bove per andare a occupare un onorato posto di cassiera in qualche volgare ipermercato di una città lontana.
Così il giorno del giudizio, ovvero quello in cui Lo Monaco decide che è venuto il
momento di chiudere i conti, Gesualdo è quasi sollevato.
Lo Monaco ha un braccio tale che pare quello delle pale meccaniche. Con quell’arto possente afferra il nostro a metà della sua vaga passeggiata pomeridiana e gli sbatte la faccia contro la ruvidezza antica di un muretto di tufo. Di primo acchito Lo Monaco, che in mancanza del sindaco, del prete, della protezione civile e di ogni altra autorità certificata in paese fa in realtà un po’ le veci di tutti quanti, pare voglia vendicare il pollo sgozzato riducendo Gesualdo alla consistenza di un hamburger. Ma è solo un istante, al termine del quale egli fa un gran respiro, a significare quanto in realtà gli costi mettere insieme tutta questa misericordia per un’ameba di ragazzino buono a nulla.
Perché Lo Monaco ha un progetto su di lui.
E Gesubon comprende che un qualche diavolo di spiraglio, forse, si sta aprendo. Non c’è mese che sia trascorso infatti, da quando la Partigiana è andata via, che lui non sia sparito tre o quattro giorni per far finta di raggiungerla nella grande città che l’ha in gloria come cassiera. Son giorni che in genere ha trascorso a giro per i boschi, dormendo in ricoveri di fortuna, camminando fino a farsi fumare le suole delle scarpe. Tempo sprecato col solo intento di potersene poi tornare con la corriera, zaino in spalla, e aver da raccontare a qualcuno del paese quanto proceda bene la vita di Santina nella sua nuova esistenza civile. Quanto, soprattutto, l’amore che li unisce renda loro impossibile star lontani più di tanto. Ecco il tormento.
Capisci quindi, ragazzino mio, che la fiducia che io ripongo in te è superiore a quella di iddio stesso.
Nostro Signore sa bene quanto le carni di tutti siano deboli e votate all’errore. Tra di noi, Gesubon, errore non c’è stato, non c’è e mai dovrà esserci in futuro.
Con tutto il cuore dei Lo Monaco io ti affido alle cure sapienti dei cugini che vivono in città. Loro sovrintendono alla gestione del centro federale per la formazione degli arbitri. Mettiti interamente sotto la loro protezione.
Un uomo, e vedrai che uomo. Questo sapremo fare di te.
Che specie d’uomo sono.
Gesualdo ci pensa e ci ripensa fino a farsi dolere le meningi. E ancora non ha risolto, mentre con poco fagotto e poca anima sale sulla corriera utile che lo porterà via dal paese. E ha la sensazione chiara, piuttosto, di andar via da se stesso, di esser stato sfrattato dal conforto morboso di una buona madre ingombrante.
Adesso proprio lui, che non ha mai avuto bisogno di formulare un proposito in vita sua, si ritrova a giurare sul sacro che tornerà, prima o poi, allo strapiombo dei Colli di Monte Bove. Si che tornerà, vedrete, dovesse trascorrere la fottutissima vita intera.
Ed è questo preciso pensiero che gli reca conforto in quei mesi lunghissimi e noiosi che gli ci vogliono per imparare i segreti dell’arte arbitrale. Mentre comincia a sperimentare la divisa e il fischietto, lui scopre come tutte queste attività corrispondano al suo intimo desiderio che esistano gerarchie precise a regolare i rapporti e norme certe da applicare nei comportamenti.
Gesubon fa passi da gigante. La sua natura arrendevole comincia a temprarsi al cospetto delle risse furiose che gli si scatenano vicino. Mentre percorre la provincia di campo in campo, mentre negozia e discute e litiga con una pletora affamata di giocatori e dirigenti calcistici e faccendieri vari, il grande paese gli appare sempre più come un gigantesco e folle villaggio vacanze regolato da rigide appartenenze di parrocchia.
Dal cupio dissolvi collettivo si salvano solo gli amici e i parenti stretti o quelli allineati in qualche cordata di fortuna.
A lui del calcio non interessa nulla che non sia la propria casacca e il fischietto e l’autorità che ne risulta. Con quell’arte specifica che da sempre lo costringe a compiacere il prossimo, riesce a transitare indenne e senza macchia attraverso i peggiori Derby di periferia, fischiando un po’ di qua e un po’ di là, dando a intendere di capire profondamente le buone motivazioni del tal attaccante piuttosto che del tal altro difensore, imparando via via a fare il buono con i cattivi e il cattivo con i buoni.
Finchè un giorno non arriva una chiamata direttamente dal cielo che conta. E lui, con il vestito migliore che ha, si ritrova sotto la facciata barocca di un palazzo signorile, davanti al videocitofono d’argento su cui campeggiano un bel gruppo di calligrafie antiche, la metà delle quali recitano in coro lo stesso eterno cognome: Lo Monaco.
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