Blues del Ritorno

Da secoli – concluse il prete – gli italiani hanno preso coscienza del fatto che c’è una sola vita, e cercano di viverla meglio che possono. Questo li ha resi calcolatori e volubili, ma li ha pure guariti dalla crudeltà.” – G.G.M.

Mi ricordo tutto il tempo dei Dodici Racconti Raminghi di Garcia Marquez, sono quarantotto ore circa in cui si sviluppa la densa migrazione del ritorno dal punto finale del viaggio a Caye Caulker, Belize. Me ne ricordo perchè li sto leggendo e m’aiutano a sopportare il passaggio da terraferma a barca e ancora a molo, da un Bus freddo condizionato a un Tuk-tuk caldo e scomodo e ai tanti Check-in improvvisati dell’itinere, da una frontiera in cui rovistano gli zaini malamente a una in cui sorridono e ti storpiano il nome, da un Security Check in cui ti perquisiscono tastandoti le palle gonfie alla maniera dell’FBI a una moderna cabina europea che ti gira intorno come una Total Body Tac, senza bisogno di toglierti le scarpe ed appestare di conseguenza i poveri addetti ai controlli di rito. All’inizio e alla fine di ognuna di queste interminabili operazioni da Ellis Island post-moderna, Garcia Marquez spunta ogni volta dritto nel fianco in vecchia edizione cartonata dal volume dello zainetto gravescente che smonto e rimonto dalla schiena offesa.

Dalla malattia del ritorno non si guarisce mai, la forma cronica e sottile che mal si tollera, così come il mal di schiena da trasporti locali che l’accompagna, è piuttosto una sindrome che si invoca quando le cose tornano a essere ferme e perfettamente prevedibili come nei pressi di casa propria.

E’ facile essere italiani in Centroamerica, non ti dicono Mafia né Berlusconi, sorridono vagamente incantati i più, si percepisce quel lato di sogno latino delle origini che noi non capiremo mai, cosa voglia dire per la loro mescolanza giovane, pura e distante trovarsi un attimo accanto un esponente della terra della lingua madre, del papa, dei padri esploratori e della buona cucina. E’ assolutamente piacevole e vagamente imbarazzante, ci chiamano per i fratelli che fatichiamo a sentirci, così invecchiati e volubili come Marquez aveva probabilmente ben fotografato.

Tre anni e passa fa, nell’idea con cui fu concepito questo blog, si prevedeva di fornire delle mini-schede di viaggio degli itinerari percorsi, volevo mettere giù dei mini-bugiardini geografici utili a disorientarsi più che a collocarsi in giro all’estero. Mi pareva di essere definitivamente certo  che la parte utile dell’andare in giro per alterità fosse l’imprevedibile che capita fuori dalle rotte stabilite, ma anche la nostalgia soggettiva che si sviluppa nel tornare a casa, una cosa incurabile che crea dipendenza, per non tacere di quell’altro breve viaggio allucinatorio che comincia riordinando le fotografie e che dura tra i pochi giorni e gli anni, dipende dai caratteri, una quarta dimensione in cui prendi congedo dal mondo parallelo che hai abitato senza calcolare il domani.

Senza calcolare il domani” non è certo un affare semplice, non lo risolvi contrattando alla morte come usano fare gli italiani all’estero, avresti l’onere di scollegarti di sana pianta a dirla tutta, come Anna e Armando di Roseto degli Abruzzi che gestiscono un’allegra Gelateria/Pizza.al-taglio sull’incredibile mare turchese di Caye Caulker, cinque anni che sono spiaggiati qui e non sono tornati un giorno da Mamma al paese, anzi, hanno costretto la povera “vecchia” a migrare lei tre mesi l’anno per andarsi a portare conforto e salami abruzzesi. Questo, nel mio mondo storto, si chiama precisamente: “lavorare per migliorare la razza”.

Sono vent’anni che mi cullo nella fantasia di espatriare senza domani assicurato, altrettanto tempo che devo abdicare al bovino senso di realtà, uno dei nodi che mi trattiene è la considerazione che ho ereditato tutte le attitudini poco ardimentose di un padre impiegato-ragioniere scampato al dopoguerra, ovvero l’ultima cornice temporale in cui abbiamo ri-considerato quanto precaria sia dopotutto l’esistenza al mondo. Si poteva scegliere di migrare o di non-migrare, ancora, il mio vecchio scese dalle Calabrie e si fermò subito a Roma, disperdendo quel po’ di seme del nonno che in gioventù aveva cavalcato l’Atlantico per andare ad aprire una leggendaria Birreria a Palo Alto in California. Bella scusa, va detto in coro, buttare la palla nel corner del campo paterno ma tant’è.

Sono parecchi i motivi per cui non scriverò più resoconti geografici di viaggio, credo, sono appena tornato da Guatemala e Belize e come ogni volta fatico assai a ricompormi, anche perchè ho capito definitivamente che c’è una vita sola e nei luoghi non si torna quasi mai. Questo mi ha reso calcolatore e volubile di certo, ma mi ha pure guarito dalla crudeltà, per dirla alla Marquez, evidentemente, voglio sperare.

Vado almeno a rinfilarmi i pantaloni.

2 risposte a “Blues del Ritorno

  1. Quando lasciai le sponde blu del mio primo vero viaggio per tornare alla realtà quotidiana provai una fitta al cuore che duole ancora a ripensarci: mi abitava la terribile paura di non poter rivivere più la magia di un viaggio come quello. Ora non è più così e per certi versi ho rimpianto di quella fitta, provo tenerezza per quell’inesperto smarrimento. Ho però imparato che sì, la vita è una, ma fino all’ultimo respiro può riempirsi di nuovi viaggi e nuovi panorami e l’importante non è la meta ma il viaggio in sè, quel qualcosa che ti impedisce di dormire la notte (anche se lo avresti desiderato, per ricaricare le batterie sfinite….) perchè non vedi l’ora di tuffarti in un nuovo giorno tutto da scoprire. E così al ritorno dal mio ultimo viaggio sono riuscita a placare il dolore della partenza pressappoco tra il primo e il secondo aereo e sono arrivata a casa quieta, fantasticando sulla prossima partenza e tenendomi stretto al cuore un lembo di serenità, da usare per fertilizzare il quotidiano e restare in contatto con la mia anima.
    PS: più difficile infilarsi di nuovo le scarpe che i pantaloni…… 😉

    • bene, hai lavorato bene tra un aereo e l’altro, altrimenti avresti avuto bisogno di prendere questi pensieri e allungarli e stirali come le fibre di un’amaca stesa tra due puntelli di sogno e memoria, è così che si scriveva un tempo, ed è così che si continua oggi, palabra en la palabra, nei dintorni del viaggio.

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