Lo Yemen è per molti versi il paese più incredibile del mondo conosciuto, un trattino del continente asiatico annerito dai riti consuntivi della grande storia che sfreccia all’ombra del nostro dorso d’asino globale. Polveri di un tempo invecchiato come le tribù soffiano ancora col vento delle pietraie e s’intrappolano nelle sfarinate città di fango secco dove gli uomini non hanno altro da fare che dormire il mezzogiorno contro un muro decorato a stucco. Intorno, l’economia sociale va a rotoli allegramente, mentre le donne procedono come miniature degli scacchi in quella tipica camminata da pedone nero senza avanti né dietro, ognuna di loro consacrata alla notte, alla fessura invisibile della velatura completa che la domina.
Quell’estate si rivelò l’ultima di un certo periodo fondamentale della mia vita, l’ultima in cui avrei fatto cose sciocche affannose come partire in gruppo puntando sulla cavalla sbagliata, e scarpinare su pietraie bozzute dai riflessi smeraldini, e seguire il flauto degli occhi freddi, magnetici di una qualche Raffaella di Roma, occhi cerchiati e privi di resto, quartiere Pineta Sacchetti, alla fine di lunghe circonvallazioni inutili in cui scendersi, comprendersi per tenere la distanza, qualche birra serale nell’ansia comune di apparire, il fine settimana che il lavoro ti sputa per strada e tu fai notte dura come ogni altro pascolo di bravi cristiani che si rispetti.
Il campo di battaglia fece epoca, personale e collettiva, si trattava del maledetto Yemen appunto, la terz’ultima economia del mondo, un’Arabia Felix teletrasportata dal medioevo alle soglie incredibili del terzo millennio con il suo infinito codazzo di pose retrograde, di miracolosi paesi in pietra secca, di masticatori di Qat che affollano ogni spazio della vita pubblica, culturale ed economica. Drammaticamente, il paese non è autosufficiente in null’altro che nell’approvvigionamento ossessivo della propria droga nazionale. Due terzi dello scarso territorio pietroso è infatti dedicato alla coltivazione della sostanza, il resto è povertà sociale che sfiora la fame, se non fosse per quell’antica cintura di legami solidali tribali che tiene insieme il giocattolo fiabesco.
Fandonie e fatti non si distinguono più. La storia muta in retorica e viene recitata dentro formule da luna-park maligno. La sciocca credenza è che l’era post-moderna cominci grosso modo intorno al 1998, o almeno abbia dato i primi segnali di distopia conclamata in seguito alla scissione dell’agente Occidentale Bin Laden, di stirpe salafita yemenita, dal corpo putrescente della CIA. Per festeggiare l’evento, precisamente, Al-Qaeda fece artificio e fuochi con le ambasciate americane di Kenia e Tanzania.
Così s’arriva sul luogo della foto, Sharara il nido d’aquila, il freddo della pioggia dii montagna e le pulci con cui dormimmo felici, l’estate del 97 in cui 24 italiani finirono rapiti dalle tribù yemenite che chiedevano scuole e ambulatori di base, fu una specie di scampagnata bilaterale irripetibile che ci avveniva proprio lì accanto. Seguivamo le notizie, Raffaella di Pineta Sacchetti ed io, sentendoci vagamente spallati ed esclusi dalla Storia che conta e anche dalla storiella un po’ misera che avevamo messo su in viaggio tra deserti incandescenti. Gli italiani nel frattempo avevano ottennero il rilascio e le tribù le scuole, con grandi festeggiamenti di addio e pacche sulle spalle e una cena di capretto leggendaria.
Nostalgia di un mondo finito che stava per cominciare a fare globo truce sul serio, oggi Sharara è un maledetto gioiello medievale off-limits sul piano inclinato del pianeta, molte altre cose abbrutiscono intanto e le bussole sembrano coleotteri ancora vivi, disorientati da un cattivo insetticida.
Il tempo ci collassa attorno e noi non ne sappiamo nulla, ma più che altro nulla vogliamo più saperne.
La paura lavora come una macchina del tempo, come se l’uomo non avesse mai imparato a viaggiare, a desiderare di scoprire le meraviglie del mondo. Molte di queste, oscure per millenni, tornano silenziose a guardia del secoli a venire.
la paura è una macchina del tempo, giusto, e procede a senso unico. Il pianeta sta già ricostruendo il silenzio pre-umano.
Che invidia pensare viaggiando e tirare le fila dell’esistenza.
viaggiare è un investimento esistenziale, le culture anglofone lo danno per scontato, a noi dovrebbero insegnarlo a scuola. in ogni caso, tirar le fila tu lo fai bene, la tua scrittura cerca spesso l’altrove del qui, come tutti i buoni viaggi da fermo.
Spero di avere modo presto di viaggiare anche fisicamente. Sicuramente quando i due viaggi sono in sincronia se ne ricava una profondità speciale.
absolutely 🙂 vero nel bene e nel male