La Discesa nel Girone del Quarticciolo

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Alcune mattine presto devo percorrere un’antica risalita da lontani mondi notturni, da quella razza di pensieri non commerciabili che hanno smarrito il pensatore. Cerco allora di andarmene a est da dove si presume che sorga il sole, devo quindi svoltare in via della Saggina, una traversetta sbilenca che percorre in piano il versante collinare del quartiere, e gettarmi nella discesa di via dei Gelsi superando una Pinseria, un alimentari rumeno e il bugigattolo di un riparatore di elettrodomestici che smonta tutto sul marciapiede.

Alle spalle lascio un po’ esauste le mie palazzine da miracoletto anni 60 piene di piccole borghesie in bilico moderno che si svegliano, lascio indietro smarriti intellettuali di ritorno e rumeni già mezzo brilli che borbottano col caffè. Ragazzi africani che parlano romanesco mi attraversano la strada di corsa, la sciacquata di un balcone mi prende mezzo mentre arrivo ai piedi del mio monte urbano vicino a certe siepi di alloro incrostate di vecchio smog. C’era una grande marana putrescente quaggiù fino agli anni 50, mi fermo sul ciglio del vialone Palmiro Togliatti, sei corsie veloci e qualche semaforo pedonale dove anche col verde è un azzardo attraversare. Rischio anche il rosso perchè mi pare non si vedano macchine e finisco comunque di corsa gli ultimi cinque metri.

Così approdo sull’opposta riva del Quarticciolo, ovvero ciò che dopo la guerra ha preso il posto della marana, una gettata di palazzine modulari, ultrapopolari, che fanno uno di quegli effetti urbani in bilico tra le periferie sovietiche, Scampia e una colonia in libertà vigilata, con tanto di alti platani che si sforzano di ingentilire e balconi da mezzo metro che gravano gli uni sugli altri. Entro nel quadro dei popolani fantasiosi e indecifrabili seduti a sventolarsi le arie sul basso muretto di cinta del comprensorio. Li si guarda in faccia passando e ancor prima di considerarne la cifra sdrucita si intuisce subito che è gente spiaggiata di grandi mareggiate, lo si afferra da quel vago sorriso un po’ smargiasso di chi è tornato dall’impensabile.

Niente piccola borghesia quaggiù nello sprofondo, persino di rumeni non se ne vede più, sto per raggiungere il bar di cinesi che ha un retrobottega fumoso e oscuro dove lampeggiano i poker, le sigarette e le macchinette mangiasoldi peggio che in una cantina di Macao. Poco avanti va via sul marciapiede un terzetto di ex-travestiti in pensione che spingono la parlata brasiliana fino alle altezze dei platani, sono almeno trenta chili sovrappeso ognuno e fanno impressione, sono sgargianti e a tratti urlano come uccelli. Tra noialtri tutti, davvero sembrano gli unici felici.

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