Lunedì scorso ero sul lungomare di Ostia, la luce mi sembrava propizia e avevo tempo da perdere, così sono tornato a fare un giro all’Idroscalo dove mancavo da diversi anni.
Ho guidato lentamente intorno al grande complesso del nuovo porto turistico e a una manciata di viali, transenne, piazzette, ristoranti, parcheggi, spianate per lo struscio, tutti rigorosamente lindi e vuoti ma già attaccati dalle erbacce, e non sono riuscito a capire se il progetto è compiuto o interrotto o solo terminato al ribasso.
Resta testardo il senso di desolazione tradizionale della zona che ti aggredisce, reso più affilato ancora dall’ossimoro urbanistico cresciutogli in mezzo. A duecento metri il villaggio di catapecchie e i suoi panorami di lavandini, sterpi, immondizie e auto sventrate eterna in una luce di polvere retrocessa nell’occhio.
Avrei voluto cullarmi un po’ nei versi celebrativi sulle lapidi del parco dedicato a Pasolini ma il cancello era chiuso con un catenaccio sbrigativo. Ho fermato la macchina di lato e sono andato a guardare da vicino il cartello che recava un criptico messaggio della Lipu in merito all’inibizione del luogo causa non specificati motivi di sicurezza.
Ho letto più volte le parole scritte a mano finchè non mi è sembrato di avvertirle nell’orecchio, come fossi nel sentore acido di una vecchia cabina telefonica arsa dal sole. Sul lato della darsena i pennoni delle barche ondeggiavano piano oltre il prato e la recinzione.
Era poco oltre mezzogiorno, la luce veniva da un altro mondo e feriva o faceva venire sonno, non saprei dire, intorno non girava nemmeno un motorino.