L’odore acido accorato dello stoccafisso norvegese schizza via dal negozio e passeggia avanti indietro per una decina di metri buoni di marciapiede, a via Bresadola. Vengono da ogni parte di Roma in questo negozietto che tratta tutte le variazione di taglio e qualità del valoroso baccalà. La bottega vive asserragliata tra porte chiuse, sfiati di areazione mefitici, grosse colonne freezer che suonano come fuoribordo e l’addetta alle vendite, sempre lei, che sta in piedi poggiata a muro avvolta in piumino d’oca, leggendo fumetti. Lei ti alza appena sto sguardo sottomarino dal giornaletto e lo butta sulla cassa per mandarti via veloce, forse il fumetto avvince e forse sei tu di temperatura calda e odore neutro che lei non concepisce, come se ti capitasse davanti un alieno potenzialmente infetto.
Così esco fuori nella terra e mi chiedo se pesi di più l’odore di pesce o quello di fritto, il Mac ha migliorato gli standard di filtraggio dei fumi negli ultimi anni e fuori arriva poco, devi andare fino alla cassa per farti una bella nuotata a stile libero nel grasso bruciato vaporizzato. Il grasso di Mac ha un tanfo diverso da quello degli altri fritti e chissà come o perchè. Guardi quel paio di addette che si muovono lungo una linea fissa di movimenti fronte retro come pupazzetti su un asta del bigliardino. Entrambe hanno una faccia devastata dal grugno, il doppio taglio sfumato da maschio, la stazza di una 90ina di chili acciambellati che si divincola dai pantaloni a cinta bassa della divisa sociale. Per evitare di stare nel pensiero del fritto che mi si infila tra le sacre maglie del cachemire penso ai temporali di docce che gli ci vorranno a ste due per tornare normali, e non so che c’entra ma tutt’e due mi paiono di quelle saffiche drastiche e maschili, il mio panino è tutto scartato ma io mi allontano silenzioso e mansueto, con il grasso di porco che m’insegue per un bel pezzo perchè questa merda persiste un bel po’ attaccata dentro le narici.
Continuo a camminare e mi dico oltremodo che mai in vita comprerò un sapone nella bottega franchising di viale Agosta, metto però in linea dentro di me le tre puzze diverse e faccio che in teoria sceglierei un contratto a tempo indeterminato per fare il commesso del negozio di saponi alla spina, se proprio fossi obbligato a dettare le mie volontà in un suicidio olfattivo assistito. Lo dico e sbaglio, non c’è che licenziarsi e agognare un sussidio, lo dico e allungo il passo di parecchio per scansarmi dalla nuova esperienza, come entrare nel carico della lavatrice insieme al Dash che ti colma le fibre, duecento metri dopo sento ancora questo artiglio chimico che pizzica e mi scava il setto nasale, qualcosa che sveglia davvero il mesocervello rettile dove afferiscono e vengono elaborate le informazioni olfattive, da qualche parte dentro tra amigdala e giro cingolato si svolge una battaglia furiosa per richiamare in vita il lucertolone impulsivo che dorme in me.
Il sapone muta in sapore, scende fino a urtare le papiile gustative e mi fa venir voglia di spaccare il mondo, ecco, più dello stoccafisso putrescente o del grasso di foca di Mac. E non so che ci possiamo fare con queste conclusioni, il lavoro ti deforma e ti spezza per infinite vie, e puoi arrivare anche ad agognare quel bel vecchio sentore di smog che sa di ferro proletario e particolato e certamente, tenersi distanti dalle psicosi sensoriali che il mondo già naviga Jurassico per conto suo.
i nostri sensi hanno la capacità di trasmetterci ogni forma di percezione, poi, le persone intelligenti, riescono a trasformare queste intuizioni in opera d’arte, e tu nei sei un esempio, perché riuscire a scrivere un pezzo così originale, non è cosa di tutti i giorni, perché di post ne leggo tanti, ma ti assicuro che tu sei sopra la media. Continua così…..
😉
Seguo il barman del club: parecchio sopra la media, anzi tantissimo.