“La verità ti renderà libero” è una di quelle ambivalenti boiate di successo. Se così davvero fosse, l’Uomo si sarebbe già estinto, talmente gregario è il suo istinto cardinale e nonostante la possibilità concessa di ricrearsi nel simbolico personale una cloud divina a sè bastante. Ricordo con affetto i giorni in cui mi pareva evidente, invece, quanto la verità mi rendesse prigioniero. E’ tutta una faccenda di parametri che si incrociano alla fine, se il manometro dell’età volge al basso come in gioventù, ad esempio, la verità non è che ti renda prigioniero, ti porta proprio all’Asinara con le sirene spiegate.
E via così quelle mattine, ci svegliavamo all’improvviso tra l’orgiastico e l’accusatorio dentro questi gruppi di terapia didattica tutti seduti per terra, era un po’ come finire riciclato direttamente negli intestini di Sigismondo. Stavi lì sospeso tra ansia di scavo e sbarba rivalità professionale, volevi la bicicletta freudiana e allora dovevi dargli sotto con i tuoi fantasmi sessuali e tutti gli altri bastardi di spettri quotidiani, i più sofisticati, dato che quelli erotici si mostravano spudoratamente e in linguaggio comprensibile al confronto. Se la faccenda vi pare strana è solo perchè non avete mai fatto sedute analitiche appitonato mezzo sopra Ilaria che spandeva profumo, capelli e zinne in un’area di 2 metri quadri da sé.
Ci teneva la stenta briglia un navigato maestro dalla faccia di Bogart imbolsito, uno saggio e intelligente che aveva profilato un efficace metodo personale, uno che ti fregava regolarmente facendoti rilassare con l’ironia e poi sparava con molta cognizione di causa. Aveva una mira perfetta il cristo di Boghey, una delle 38 retoriche preferite recitava più o meno così: “E’ inutile che entrate qui portando avanti lo scudo del ritardo giustificato, è proprio allora che siete più colpevoli!”
Così alle 9e15 di un cavolo di lunedì, con la macchina di damocle parcheggiata in seconda fila fino al primo break, col fantasma di Ilaria che stava per sposarsi ma lo stesso ti faceva manina bassa a indicare di sederti sul cuscino lì vicino, tu solo in piedi con l’archetipo del pigiama ansioso del sogno che ti calzava stretto, dovevi fare il capro sperimentale per tutti e verbalizzare in tempo reale qualche diavolo di quadro emotivo che pendeva storto dentro di te.
Ho assistito a incredibili esercizi di contorsionismo esistenziale davanti a Beppe, le nostre età sbarbate creavano varie stature di mostri da Asinara, tanto per rinfrescare la metafora portante, la verità ci faceva il sole a scacchi e alleggeriva l’ansia pietrosa dei colleghi di braccio, talvolta li faceva ridere, talvolta piangere, in ogni caso restava a distanza di sicurezza da noi, protetta da un’età dove è obbligatorio sbagliare le prospettive. Si andava, poco più che adolescenti e orribili, pronti al martirio delle retoriche, ognuno provava con sincerità a squarciarsi fino allo scheletro, e mentre le ossa sembravano apparire per un istante sulla pubblica piazza, Boghey coniava i suoi proiettili ermeneutici e la Verità faceva ciao-ciao con la manina.
Eravamo io, Fabrizio, Giovanni, Alfredo, Ilaria, Assunta e un nugolo di altri, la nostra storia continua fantasiosa altrove e noi ci lasciamo un attimo solo per dire che: a trent’anni non lo sai, devi arrivare a cinquanta e voltarti indietro per capirlo bene, aveva maledettamente ragione Jung, non puoi portare nessuno fin dove non sia stato già tu stesso. La percezione del dolore nudo, mettere la faccia nell’impensabile. Non si tratta di imparare ma di Vivere e rialzarsi; prima della mezza età, pensare di poter esercitare questa professione è in gran parte un delitto di superbia.
inchino al tuo scrivere (e al tuo pensare…), leggerti è una sferzata d’energia vivificante
grazie, sai che i fatti sono sempre a metà tra chi legge e chi scrive 😉