Un Kurtz in Bottiglia

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Sono le cinque della sera a Trincomalee e il Driver singalese è già ubriaco come un vecchio Babà molliccio crollato sul piattino. Non me lo aspettavo, Jay appariva così responsabile e centrato nel presentarci la bella moglie e la buona suocera che m’ero sentito civilmente spiantato io, a giro per la sua pulitissima casetta tropicale piena di buoni principi buddisti prima di avviarci oltre frontiera col suo pulmino Nissan. Se ha detto di si subito, senza nemmeno esagerare con i dollari richiesti per allungare di un giorno il percorso, vuol dire che non è poi così pericoloso addentrarsi in territorio Tamil, questa era stata la superficiale conclusione. Così in due ore di strade deserte tagliate tra la foresta tropicale e le radure aperte dal fuoco delle bombe abbiamo facilmente raggiunto la mitica spiaggia bianca di Trincomalee e ci siamo andati a chiudere subito dietro l’alta cancellata che separa la guest house dall’incantevole battigia.

Jay barcolla lungo il porticato del cortile, la mia amica s’è avvolta dentro i parei migliori come per scendere nel social di una spiaggia affollata ma continua a fare fuori e dentro dalla camera, il nerissimo gestore Tamil ci osserva dalla pigrizia cigolante di una sedia a dondolo. Io penso ai pezzi di muro ancora fumanti che abbiamo incrociato lungo la strada e mi domando dove sono gli eserciti e le camionette, dove sono gli abitanti del paese che sembra deserto e se ci stiano spiando dalle fessure delle tapparelle di case poverissime, piuttosto. Infine, dov’è finito il limite che si impone quando ti salgono certe idee sciocche su per la testa.

Così prendo le esagerate manate amichevoli di Jay e me le carico sulle spalle mentre mi avvio lungo l’incredibile spiaggia solitaria che scrocchia di coralli calpestati per schiarirmi i pensieri. Voglio stare qualche minuto in silenzio nello sciame di sensazioni che non riesco a puntellare alla coscienza, qualcosa continua a strapparmi di dosso l’attenzione per dirigerla su particolari ininfluenti, ci penso un po’ e concludo che possa essere una forma inconfessata di paura.

In Israele, dieci anni prima, avevo sfiorato la guerra per davvero, la volta che certi scontri di manifestanti e camionette che sparavano ci avevano ridotti a fasci di nervi buttati dentro un portone. Avevo avuto una paura fottuta, ma anche quella forma di lucidità estrema che sopraggiunge ai sensi e ti fa sentire nitido, centrato nell’istante. Qui è molto diverso, la questione tra maggioranza Singalese e minoranza Tamil è uno di quei conflitti striscianti, sottotraccia, con improvvise impennate violente. E Sri Lanka somiglia davvero al paradiso terrestre, la gente è generosa e gentile e non parla mai di politica, non ci vuole molto a distrarsi, così nasce l’idea di piantare un’altra sciocca bandierina sui miei stendardi di viaggio.

Rientro nel recinto della guest house con le mani piene di conchiglie, con l’animo opaco di uno che s’è andato a infilare in una bravata e pensa che tanto ormai è tardi, e non può far altro che tollerarsi con animo ambivalente. Jay nel frattempo deve aver finito di strangolare il collo della bottiglia, lo trovo che piange da solo, abbandonato su uno dei tavolini scrostati delle colazioni, un braccio intorno agli occhi per schermare la vergogna che gli fa il momento.

Non so che fare e allora è lui che ci pensa, mi vede, si alza, barcolla, poi mi si butta addosso e io lo devo sostenere sul serio per evitare che crolli tra la ghiaia di corallo sfarinato che pavimenta il cortile. Con la voce spezzata dalle lacrime mi confessa di avere una paura pazzesca di finire impalato sulla piazza del paese, lui driver singalese in territorio tamil, che si considera una specie di merda umana per aver accettato questi dollari extra e chiede perdono agli dei, per aver lasciato a casa fiduciose una suocera e una moglie gravida che hanno solo lui su cui poter contare al mondo.

Con la coda dell’occhio vedo la mia amica poggiata sullo stipite della porta della nostra camera che ci osserva sospesa, senza fiatare, con l’aria di una che sta facendo sforzi sovrumani per farsi passare la voglia di chiedere che cosa stia succedendo. E così finisce il ricordo, con me che provo un incredibile senso di solitudine a nascondermi dietro la scusa che accidenti, va bene che Trincomalee è stata una mia idea, ma Jay e pure la mia amica avrebbe potuto farmi ragionare, diobono. E’ che non valgo nulla così messo dietro questo paravento, so benissimo quale potenza nasconde il luccicante dollaro alato e so che la mia amica è parecchio inesperta.

Ci devo stare, accarezzare la schiena di Jay scossa dai sussulti finchè non recuperi un po’ di statura adulta, inventarmi una storia al ribasso per Francesca che non nasconda ma sappia stemperare, tirare avanti ancora il carro di una notte che passeremo ognuno al limite della veglia a rigirarsi tra adenoidi e sospiri nelle stanze adiacenti che danno sul cortile. Io, Jay, Francesca, il proprietrario sfinge della guest house, il rumore delle onde dell’oceano indiano, il suono della piccola cavigliera avvolta sul minuscolo piede della figlia duenne del gestore che percorre lungamente la notte, pure lei e chissà perchè.

(photo: Jay’s beautyful family)

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