Yemen don’t Panic

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Non ci sono yemenite svelate, nei tortuosi vicoli del suk di Sana’a se ne incontra qualcuna che sfila appiattita contro i muri protetta delle sporte della spesa, sono attimi d’incrocio sfocati, fantasie che corrono: una serva dall’identità oscurata forse, una meretrice in transito veloce, va a sapere, a cosa ti serve l’oggetto dopotutto. Fuori dai meandri del mercato tutte le altre sono calate dentro una specie di drappo magico da illusionista, invece della colomba ne esce quest’essere dall’aspetto demoniaco, non una donna certamente, piuttosto un pedone della schiera dei neri che scappa dalla scacchiera, un unico velo come la notte, come il bisogno di osservare in che direzione cardinale muova i suoi passi per intuire la posizione relativa della faccia e dell’anima.

Uday s’ingrassa in una risata tale che riesci a essere un po’ dentista della sua complicata cavità orale. Ride e mastica e sputa il Qat fuori dal finestrino Uday, il resto del tempo sta silenzioso e torvo, gira il volante della Toyota come fosse un dio locale sospeso tra furia e celia, come vuole la rappresentazione canonica dell’integerrimo maschio yemenita, un dio assolutista col coltellaccio sempre in evidenza alla cintola della djellaba, ma pronto a spiegarti con vanità portabile come si legge da lontano il corpo del pedone nero che sta intorno alle donne che camminano nella cunetta della statale tormentata, dirette verso paesi fantasma visibili lassù in cima a mezza giornata di cammino.

Come cavolo fai a scegliere quelle a cui fischiare, a cui rivolgi quello sguardo da assassino poco pentito col collo fuori dal Toyota, quella mano che batte due volte sulla lamiera per sottolineare l’acquisizione di un colpo di vista erotico sull’illusionismo delle forme imposte per legge coranica.” Questo gli chiedo, omettendo tutto che che sta dopo la prima virgola perchè non voglio finire impalato sulla via per Sharara. Lui sputa ancora prima di prender parola, il bolo verdino che ne esce piega la sua traiettoria nell’aria che ci corre incontro e finisce mezzo sul cofano e mezzo sul parabrezza del gippone.

Mi guarda come fossi un mezzo adulto sbarbato, uno senza coltello, poi nel suo lento inglese ricostruito al pallottoliere dice: che cosa ci vuole, basta guardare dentro la fessura degli occhi e seguire il brillio, se c’è, e la linea dei fianchi che ondeggia, se ondeggia.

L’incredibile punto di vista della natura continua a sfalsare i piani lungo la statale piena di tornanti che sale sotto di noi, la roccia cambia colore ogni momento a mutare di versante ed esposizione di luce, siamo 32 italiani vacui e 3 driver col coltello a cinta e i baffi a manubrio che facciamo corteo nel nulla pietrificato dei monti di Sharara, l’irrilevanza ontologica della mia domanda mi colpisce come un’epifania da masticazione di Qat mentre si diffonde nel retro della mia Toyota dove i connazionali in gita cantano canzoni da Mediterranee. Girano il collo Vittorio, Lorenzo, Patrizia, altri di cui non riuscirò a imparare il nome, presto si conclude che è meglio così, in un mondo di ciechi si lucidano gli altri sensi e vai col tango, Uday è un grande, sottolinea Lorenzo, un fiorentino ormonale e sboccato con la couperose che gli assale le guance.

Patrizia e Lorenzo sgranano solo gli occhi a mille, la prima perchè è ipertiroidea e sta così tutto il tempo comunque, il secondo perchè è torvo e di poche parole, con uno sguardo ritratto a caverna che ricorda qualche personaggio minore in una trama di King. Siamo tutti dentro la boccia ricordo dell’estate del 98 e siamo più stupidi del solito perchè abbiamo paura, ognuno ne cova un pezzettino sotto la cenere degli atteggiamenti pubblici che mostriamo. Così per Vittorio saranno venti giorni di tormento, la sua grigia seriosità di trentenne e il monumentale riporto che onora la sua bianca nuca semiglabra saranno oggetto degli scherzi del vento e della cattiveria delle nostre mani di panico; le comunità tribali delle montagne tengono in ostaggio il governo yemenita rapendo gruppetti di turisti stranieri ma noi siamo voluti venire lo stesso, non si trovavano più tour leader disponibili quest’anno e l’organizzazione ha messo insieme tre gruppi, ecco perchè siamo questo numero esorbitante ed ecco perchè c’è più d’uno fuori orbita laddove di solito i piccoli gruppi si accentrano intorno a un “soggetto” designato.

Uday farà bene il lavoro che deve fare, portarci in giro, sputare il Qat al vento, spigolarci il paese e difenderci dalle troppe scemenze, paure e sconvenienze che agitiamo. La Guardia Nazionale ci ha pure affibbiato un soldatino smilzo come scorta, un esserino scuro in mimetica che sta nel vano bagagli del Toyota tutto tremante intorno a un fuciletto da via Pal, Patrizia si muove ogni tanto per andargli a puntare addosso il suo esasperato ipertiroidismo, per dirgli cose in torinese che ci fanno ridere per la loro assurdità distante, lei è il secondo fuoco del soggettismo di gruppo, lei lo sa ed è tuttosommato felice dei sarcasmi, dell’attenzione estorta che ottiene abituata così come deve essere alla distanza sociale, Patrizia si rivela davvero una piaga pedante, iperverbosa, sintomatica, e conquisterà alla fine la testa della top delle scene grottesche accumulate, nel canone darwiniano e cannibale che anima il sociale quotidiano.

Eccoci qui finiti, davanti all’aereo del ritorno a scambiarci numeri e contatti. Uday se ne va svolazzando la djellaba e i dollari di mancia nel pugno, lo Yemen finisce in dissolvenza a Zabid, nell’ultimo suk che ospita la corsa scalmanata dei nostri acquisti, nel luogo magico in cui Pasolini girò le Mille e una notte. E sarà uno degli ultimi anni utili per andare a vedere con un po’ di panico questo incanto feroce che è lo Yemen, prima che le bombe saudite e fratricide comincino a sfarinare i bambini dentro la meravigliosa pietra millenaria che fonda gli edifici e le decorazioni di stucco che svettano al cielo immenso dei deserti.

Patrizia intanto ha smesso di far finta di zoppicare qualche giorno prima, l’ho vista da sola di lontano, protetta dal sentirsi fuori vista pubblica, che attraversava la strada a una sosta e camminava perfettamente spedita. Patrizia ha trovato un silenzioso montanaro di Vercelli che le porta finalmente la pesantissima valigia, stia beata lei.

– dal Diario Yemenita

2 risposte a “Yemen don’t Panic

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