La notte è buona per trovare casa e linguaggio ai fantasmi. E’ questo il rovello di Rumiz che sto ricalcando mentre conto due ore prima dell’alba e mi metto fuori a prendere il vento buio che spazza il porticato. Stamattina è solo una brezza leggera che passa, fresca come una piccola benda sulla fronte. Le immagini con cui stare scivolano come carte distribuite dal banco del sonno che ho evaso, alzo l’anima e credo mi sia stato dato un buon punto da cui rilanciare la notte. Scaccio i gatti selvatici che vengono a grattarsi i parassiti sul divanetto esterno e mi metto in ascolto.
“Non c’è alcuna ragione perché la bontà non possa trionfare sulla malvagità. Basta che gli angeli adottino la stessa organizzazione della Mafia” (cit. immemore)
Sono tante le malinconie che tengo al guinzaglio, ogni tanto devo portarle al pascolo senza legami, farle sfogare come qui nel davanti scuro della casa e farle correre fino alle creste di paesaggio che emergono come serigrafie d’ombra schiarita a ipotizzare un fiato di luce da est. Fuerteventura è viva e lo si avverte in mille modi possibili, il più immediato è come lassù s’appunta il bel colore del Sahara che vola a vento dalla vicina costa della Mauritania. Fuerte smotta e accumula in superficie come un’amorevole reverie di roccia.
Così Rumiz si allontana nell’infinito recuperabile di un’isola del mediterraneo, un brano di terra piccolo, impervio e disperso tra le migliaia che puntellano il nostro bacino mitologico, in un gioco di apertura radicale al misterioso un po’ maligno che ci galleggia intorno. Si parte dal non-nostro, ciò che sta intorno quando la barca sciaborda e si arena. Scrive il suo taccuino di sopravvivenza estrema Rumiz, fuori da ogni rotta, prossimo alla costa conosciuta che gli appare lontana in rarissime notti di calma eolica. Prossimo alla grande ciancia commerciale e turistica ma in una paradossale distanza distillata in come la furia naturale si abbatte sui roccioni impervi dell’isola, intorno al faro ciclope che ospita l’esperienza del taccuino rosso. Scirocco, Libeccio, Tramontana, osservare tempi, mutamenti, scricchiolii, trame nella tessitura del mare, rami di notte illuminati dalla benedizione ciclica del grande faro, raccogliere storie e cerimonie che avvengono nei sensi esposti, nascondersi nell’illusione che guardare fuori assegni un diritto monarchico a ordinare gli scaffali del “sapere”.
C’è ben altro, Rumiz lo sa e lo teme.
“Ci sono giornate che sono filosofie, che ci suggeriscono interpretazioni della vita, che sono appunti a margine, pieni di altra critica, nel libro del nostro destino universale. Questa è una di quelle giornate, lo sento. Ho l’assurda impressione che con i miei occhi pesanti e col mio cervello assente si stiano tracciando, come con un lapis insensato, le lettere del commento profondo e inutile” (Fernando Pessoa)
Tesso e separo, cucio e ricompongo poi batto una mano sola per celebrarmi e farmi coraggio. Sono tante le uscite della notte che devo crederla e impormerla così, è questa la natura della coscienza che abito e non posso impedirlo nè uscire dal ciclo del mio umanesimo bipolare. E a metà della mano arrivano i fantasmi, non c’è santo che tenga, non c’è cosca celeste che possa mettersi di traverso. Il circo del visibile si chiude per un Send in the Clowns rituale, entrano le schiere munite dei tricksters e si apre la notte interiore. Devo solo rendermi abile e forte nell’esercizio di osservare e resistere, se le concedi quel po’ di fiducia contratta che ospiti la natura raccoglie e trasforma in pietra filosofale, è qui con Rumiz che ci diamo il secondo caffè.
– 05:26 a.m. Live from Fuerteventura, meditando Paolo Rumiz: Il Ciclope