Dio Salvi la Regina Coeli

IMG_1265Dei tre grandi arazzi di Città Eterna che si colgono coram Gianicolo, dal Fontanone, dal Garibaldi equestre e dal Faro, quest’ultimo è il più prezioso perchè comprende gli intestini ufficiali della città e anche la facoltà improvvisa di mutare in tableau vivant. E’ sufficiente affacciarsi alla balconata in un giorno in cui la squadra di casa si esprime sul campo da gioco ed ascoltare le urla soffocate per le occasioni mancate o quelle più rare, sguaiate e apocalittiche, per le altre che vanno a segno.

Regina Coeli dista solo qualche decina di metri dal proprio naso. Fino a tempi recenti, era consuetudine che i familiari dei detenuti affluissero qui per comunicare con loro gridando. Tutt’ora, raramente, vi si incontra qualcuno che urla verso il carcere frasi di supporto. Per una sorta di rispetto tra mondi trasversali, fu tradizione che le guardie carcerarie non intervenissero a impedire queste comunicazioni, a patto che riguardassero solo le notizie di stretta urgenza (ma i detenuti politici durante il fascismo ricevevano numerosi messaggi in codice). Sulla balconata del faro si trovavano, inoltre, persone di voce possente che a turno, gratuitamente, si prestavano come portamessaggi per conto di chiunque potesse avere bisogno di comunicare un’informazione.

Ascoltare la distanza che si accorcia fino a renderti complice, Regina Coeli è sovrana nell’etere romano, levatrice dello storico detto per cui nessuno che non abbia mai salito i tre penosi gradini di via della Lungara numero 29 può definirsi romano al 100%. Anche questa storia finirà, sono anni ormai che i business plan hanno inquadrato l’ex bellissimo convento seicentesco in una fantasia stellata di beauty farm o cuccagna ineffabile di edonista liquido; la storia finirà ovunque, del resto, e noi saremo di nuovo vicino alle caverne.

Intanto penso ancora con dolcezza allo stratagemma con cui riuscii a evadere dentro, un po’ di anni orsono, conquistandomi sub judice Regina Coeli il diritto al vitalizio municipale trasteverino: sono un romano Doc e lo devo all’esperienza del teatro. Non ricordo attraverso quale canale sociale preferenziale, io e la mia compagnia amatoriale di recitazione fummo mandati un po’ allo sbaraglio a fare un’ora di ri-animazione a un gruppo premiato di detenuti. Non potemmo che fare ogni cosa di corsa quel giorno, in sprezzo ai rituali lunghi e necessari di preparazione alla scena, così finimmo seminudi tra le correnti d’aria gelida nell’ufficietto di una giovane guardia responsabile di braccio a cambiarci e truccarci, davanti a una parete di piccole divinità private che annoverava le immagini sacre di Totti, Tex Willer e Che Guevara.

Poi fummo espulsi dalla fretta delle procedure nella leggendaria Rotonda, il grande spazio centrale al piano terra della struttura, da cui se alzi lo sguardo gli occhi si incanalano fino ai lucernari trenta metri più sopra e si vedono tutti i bracci che si dipartono a stella verso i fianchi possenti della Regina muraria. Per emozione solida, cacciata sotto la lingua nelle voci storte di tutti, e per impreparazione scenica, giocoforza, riuscimmo a sbagliare quasi tutti i movimenti e i tempi della commedia che rappresentavamo ma nessuno se ne accorse, ovviamente, o forse no, invece. I detenuti scelti, in piedi a semicerchio tutto il tempo, accompagnavano attentissimi le battute con motti, esclamazioni, iperboli di testi quotidiani improvvisati.

In quella che a tratti cominciò a sembrare una Rap-commedia collettiva, non so quante volte persi l’orientamento nel tondo generico della piazza scenica e mi ritrovai a dire mezze battute al compagno sbagliato, smarrito anche lui nei movimenti casuali che a un certo punto lasciammo andare per auto-misericordia. Finimmo tutti in un’irripetibile bolla orgiastica, sudati nel gelo delle correnti d’aria e commossi allo spasimo tra gli abbracci e gli applausi scroscianti di tutti che si alzarono potenti verso i bracci e gli alti lucernari della vecchia Signora seicentesca. Eravamo rimasti senza un vero centro identificativo, i detenuti, le guardie e noi. Di chi visse, lavorò, recitò o trasgredì non si ebbe ricordo alcuno per alcuni fortunati minuti.

Salve ancora, Regina.

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