Serge Latouche (Vannes, 12 gennaio 1940) è un economista e filosofo francese.
È uno degli animatori della Revue du MAUSS[1], presidente dell’associazione «La ligne d’horizon», è professore emerito di Scienze economiche all’Università di Parigi XI e all’Institut d’études du devoloppement économique et social (IEDES) di Parigi.
Pensiero
Critica, attraverso argomentazioni teoriche e con un approccio empirico comprensivo di numerosi esempi, il concetto di sviluppo e le nozioni di razionalità ed efficacia economica. Queste infatti appartengono ad una visione del mondo che mette al primo posto il fattore economico; per Latouche invece si tratta di “far uscire il martello economico dalla testa”, cioè di decolonizzare l’immaginario occidentale[4], che è stato colonizzato dall’economicismo sviluppista[5]. In questo quadro egli critica anche il cosiddetto “sviluppo sostenibile”, espressione che a prima vista suona bene, ma che in realtà è profondamente contraddittoria, e rappresenta un tentativo estremo di far sopravvivere lo sviluppo, cioè la crescita economica, facendo credere che da essa dipenda il benessere dei popoli. I numerosi testi di Latouche invece evidenziano che i maggiori problemi ambientali e sociali del nostro tempo sono dovuti proprio alla crescita ed ai suoi effetti collaterali; di qui l’urgenza di una strategia di decrescita, incentrata sulla sobrietà, sul senso del limite, sulle “8 R” (riciclare, riutilizzare ecc.) per tentare di rispondere alle gravi emergenze del presente.
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Fame nel mondo e allevamenti intensivi: invertire la rotta

Il nuovo rapporto della Fao, dell’Ifad (Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo) e del Pam (Programma alimentare mondiale) sulla fame nel mondo, presentato in questi giorni, ci dice che circa 870 milioni, non solo nei paesi in via di sviluppo ma anche in quelli fortemente industrializzati (16 milioni), continuano a patire questo flagello. Ed è sintomatico che a questa piaga si aggiunga, nei paesi occidentali, quella dell’obesità, indice di squilibrio economico-sociale e nutrizionale. Sono 1 miliardo e 400 milioni i sovrappeso, mettendo la loro salute e procurando problemi, per quanto riguarda la spesa sanitaria, all’intera società.
Stando, poi, ai dati aggiornati forniti dall’associazione “Save the Children”, 200 milioni di bambini sotto i cinque anni risultano denutriti e malnutriti. E questo mentre un terzo del cibo, quasi un miliardo e mezzo di tonnellate, viene sprecato o perduto ogni anno. In Europa finiscono tra i rifiuti 89 milioni di tonnellate di prodotti alimentari, cioè un quantitativo di cibo pari a 89 volte quello destinato agli aiuti internazionali. Nella sola Italia gli sprechi ammontano a 17 milioni di tonnellate, pari a 11 miliardi di euro, lo 0,7% del Pil. Nel nostro paese, il valore economico medio per famiglia del cibo che si perde in fase di consumo è tra i 350 e i 454 euro l’anno. Insomma, in pieno terzo millennio si continua a soffrire la fame in gran parte del mondo mentre nel resto si consuma ben oltre il necessario.
Sorge a questo punto legittimo porsi l’interrogativo se sia davvero giusto insistere a perseguire il mito di uno sviluppo incondizionato o non sia, piuttosto, più saggio ripensare radicalmente modelli produttivi responsabili di drammatici sbilanciamenti.
Fa semplicemente sorridere, ad esempio, che, come in un articolo apparso nel Domenicale del “Sole 24 Ore” domenica 7 ottobre, ci sia ancora qualcuno che, pervicacemente arroccato in sistemi di credenze dettati da modelli economico-culturali non più sostenibili e imposti come universalmente valevoli, si chieda, senza porsi tra l’altro la questione fondamentale dell’urgenza di arrestare la crescita demografica, come possa un pianeta con oltre sette miliardi di abitanti “sfamarsi senza allevamenti intensivi”. E, allora, diciamo subito che se non ci fossero allevamenti intensivi la fame nel mondo non sarebbe forse del tutto debellata ma sicuramente subirebbe una drastica riduzione. No? Non è così? Vediamo perché.
Innanzitutto va rimarcato, nero su bianco, che l’80% dei bambini soggetti a malnutrizione vivono paradossalmente in paesi che dispongono di eccedenze alimentari destinate, però, guarda caso, a nutrire animali allevati per il mercato dei paesi ricchi.
Produrre carne, oltre allo sfruttamento e allo sterminio di un numero abnorme di esseri senzienti, comporta incredibili e assurdi costi ed è causa di profondi dissesti ambientali. Un chilo di carne equivale a 35 metri quadrati di foresta, 15.500 litri d’acqua, 15 chili di cereali. Per non parlare dei grossi quantitativi di anidride carbonica prodotti. Un sesto delle emissioni globali di metano proviene da animali rinchiusi negli allevamenti intensivi.
E’ poco? Un vitello per raggiungere un peso di 500 chili deve consumare oltre 1200 chili di cereali. Quando ha raggiunto questo peso viene ucciso. Eliminati tutti gli scarti, di lui se ne utilizzerà poco più della metà per produrre carne, bistecche, hamburger. Sempre restando ai numeri, con 1.200 chili di cereali si ottengono 250 chili di carne, cioè circa 200 grammi di carne ogni chilogrammo di cereali (questo rapporto è riferito alla carne da vitello e diventa ancora più sfavorevole nel caso di carne di manzo o di mucca adulta).
Chiediamoci adesso quante persone possono essere sfamate con una sola bistecca e quante invece con un chilogrammo di cereali. Il rapporto è circa di 10 a 1. Una bistecca può saziare un solo individuo mentre un chilogrammo di cereali almeno una decina di persone. Un americano medio consuma in un anno 1.000 kg di cereali (di cui 800 indirettamente, sotto forma di carne), un africano invece ne consuma solo 150 kg.
E’ giusto? Per noi no. Anzi, troviamo intollerabile questa situazione. I paesi maggiormente colpiti dalla fame ci procurano enormi quantitativi di cereali oltre che di carne. La moderna zootecnia, l’industria della carne, ha bisogno per sussistere, di zone da sfruttare. Per la zootecnia europea vengono importate 50 milioni di tonnellate di derrate all’anno. Questo fa sì che un’area complessivamente pari a varie volte la superficie europea sia destinata in altri paesi a produrre alimenti destinati alle stalle europee: milioni di ettari nel Sud del mondo adibiti a produrre mangimi per il consumo del ricco Nord. La produzione di carne su scala industriale contribuisce significativamente al cambiamento climatico, alla deforestazione, alla trasformazione di uso del suolo e alla perdita di fertilità del terreno.
Gli allevamenti intensivi consumano ogni anno 157 milioni di tonnellate leguminose, cereali e altre proteine vegetali, per ricavare 28 milioni di tonnellate di proteine animali per il consumo umano. Vegetali che potrebbero essere usati per sfamare gli esseri umani diventano, invece, mangimi per animali.
Il World Watch Institute da anni denuncia che, se si calcola l’acqua adoperata per irrigare le coltivazioni per la produzione di mangime, per ogni chilo di carne si consumano oltre 100 metri cubi d’acqua. Il rapporto dello Stockholm International Water Institute, pubblicato in occasione della settimana mondiale dell’acqua, parla chiaro. Per produrre un chilo di carne servono migliaia di litri d’acqua. E’ quindi logico immaginare che non ci sarà abbastanza acqua per produrre il cibo necessario ai due miliardi di persone in più previsti entro il 2050, soprattutto se si manterranno i regimi alimentari occidentali con il 20% delle proteine assunte derivanti dagli animali. Che fare? Diventare, quindi, tutti vegetariani? Non lo diciamo perché qualche bella testa d’uovo potrebbe additarci come “fondamentalisti” (lo si fa sempre quando non si hanno argomentazioni plausibili da contrapporre). Però basta mettere in moto il cervello per comprendere che una via d’uscita c’è ed è nella direzione di una svolta radicale. Direzione che non conduce al parossismo produttivistico ma ad una (de)crescita sostenibile.

(Photocredit/Nicolò Massa Bernucci)
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Se la parola “banca” negli ultimi tempi suona più come una minaccia che come una risorsa, ecco un progetto tutto made in Toscany che rovescia questo schema. Con la creazione della “Banca della Terra”, la Regione Toscana ha messo a disposizione di giovani agricoltori superfici agricole del suo demanio, promuovendo l’avvio di nuove aziende agricole, che non hanno gli spazi e i mezzi per partire.
In Toscana infatti gli ettari abbandonati di superficie agricola utile (Sau) nel 2010 erano circa 360.000. Dall’altro lato c’è un esercito di giovani pronti a impiantare nuove aziende agricole, ma privi di terre in cui farlo. Il paradosso era troppo evidente perchè non si colmasse. Ed è così che la giunta regionale ha messo a punto la creazione di questa sorta di “banca” (la proposta è attualmente all’esame del Consiglio), col doppio scopo di mettere a disposizione le terre da coltivare, da un lato, e curare e promuovere lo sviluppo delle stesse aziende agricole, dall’altro.
In questa direzione va la legge creata ad hoc per installare impianti fotovoltaici sui terreni agricoli. Il tutto perché gli amministratori sono convinti che investire nell’agricoltura possa dare il via a un circolo virtuoso che va dalla qualità della vita dei cittadini, alla prevenzione delle catastrofi, alla difesa del suolo. Come ci ricorda il paesaggista Salvatore Settis, che ha preso parte al progetto. “Niente può tutelare meglio il nostro paesaggio di un’agricoltura di qualità, che incentivi i consumi a chilometri zero e l’occupazione nel primario”.