Donne che salveranno il mondo

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Emma Orbach, la donna che vive come un hobbit a impatto zero

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Senza luci, senza TV o radio, né acqua corrente. Sulle pendici del Mount Carningli, nella contea di Pembrokeshire, a ovest del Galles , Emma Orbach, 58 anni, laureata a Oxford e madre di tre figli, ha mandato l’orologio indietro a un’esistenza quasi medievale e da 13 anni vive come un hobbit, in una capanna di fango a 15 minuti a piedi dalla strada più vicina.

Figlia di un ricco musicista, la signora hobbit – così l’hanno ribatezzata i giornali– frequentò fin da piccola le scuole più costose e prestigiose del Paese, insieme, per fare un esempio, alle figlie dei Presidenti stranieri, per poi trasferirsi a Oxford e completare i suoi studi con una laurea in cinese. Qui incontrò il marito Giuliano, storico dell’architettura. Per cinque anni vissero in una casetta a Bradford, ma presto si trasferirono in un casolare abbandonato vicino a Bath, dove sono nati e cresciuti i loro figli. Da lì entrarono in una comunità hippie, con altri genitori che piuttosto di fare la spesa nei supermercati lavoravano la terra.

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Ma negli anni ’90 arriva l’illuminazione e i due comprano 175 ettari di terreno per 150.000 sterline. “La mia vocazione era quella di immergermi totalmente nella natura e allontanarmi da tutte le interferenze moderne”, racconta la donna “hobbit”, che però non fu seguita da tutta la famiglia: “mio marito non è mai venuto a vivere con me e ci siamo separati. Mi sono resa conto che questa era la mia vocazione e non potevo chiedere al resto della mia famiglia di fare lo stesso. E ‘stato normale aspettarsi che degli adolescenti non volessero vivere improvvisamente senza energia elettrica“.

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Perché una donna brillante e laureata arriva a scegliere una strada che può sembrare quantomeno drastica? “Da bambini, non siamo mai stati incoraggiati a concentrarci sulle cose materiali – continua Emma-. Ero solita giocare nei campi. Ho sempre amato i fiori e la natura. Io e mio fratello a volte mangiavamo i nostri pasti sugli alberi. È stato idilliaco. Ho avuto la vera libertà. Sono molto grata di non aver mai dovuto vivere la sensazione di aver fatto qualcosa solo perché tutti gli altri l’hanno fatta. Ho portato avanti questo principio. Oggi, tutto ciò che riguarda la mia vita mi rende felice. Svegliarsi in un bosco e guardare i bellissimi alberi, vedere le stelle e la luna, ho un rapporto molto stretto con il mondo naturale“.

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Per questo Emma ha deciso di vivere prendendo l’acqua da un ruscello, tagliando la legna, coltivando le sue verdure, curando i suoi animali (sette galline, tre capre, due cavalli e due gatti) e costruendo una capanna in stile hobbit fatta di paglia, fango e sterco di cavallo. E trascorre la propria esistenza in un luogo straordinario che lei chiama casa, dove ogni tecnologia moderna è bandita e la vita a impatto zero, con i minor danni possibili sul pianeta, è possibile.

Roberta Ragni

UNA DRAG QUEEN IN PAKISTAN

Il suo vero nome è Ali Saleem. Ma nei talk show interpreta Begum Nawazish Ali, una vedova sofisticata che mette in mostra tutta la sua femminilità
Una drag queen in Pakistan

(Reuters/Insiya Syed)

Articoli CorrelatiCome fermare la violenza sulle donneIl Pakistan dei fratelli HafizL’innocenza dei musulmaniDurante la lezione di Musica/Genere di questa settimana, parlando di mascolinità ho avuto la possibilità di presentare Begum Nawazish Ali, la ‘conduttrice’ del talk show più popolare in Pakistan, il Late Night Show con Begum Nawazish Ali. Il suo vero nome è in realtà Ali Saleem, un uomo che ama mettere in scena la propria femminilità recitando il ruolo di Begum Nawazish Ali appunto, una donna pakistana di mezza età, vedova di un colonnello. Lei afferma di farlo per divertimento, ma personalmente penso ci sia molto altro, e credo lo pensino tutti. Esistono migliaia di video su Youtube tra cui interviste e, di recente, un dossier sulla sua incarcerazione per aver picchiato sua madre.Preferisco fare riferimento a Begum Nawazish al femminile, poiché sono interessata principalmente alla suafemminilità. Parlo di lei al maschile solamente quando si parla di Ali Saleem: la persona e non il personaggio. Evito di riferirmi a lei come fosse una drag queen (tale è l’interpretazione che le darebbero negli Stati Uniti, ma non so come siano le drag queen e i drag king in Pakistan, non ancora). Ah, e alla fine di questo post, ho condiviso anche due video presi da Youtube, uno estratto dal suo show, mentre l’altro è la pubblicità (davvero provocatoria!) della sua apparizione a Big Boss, un’altra popolare trasmissione.I talk show pakistani ospitano Begum Nawazish Ali perché incarna perfettamente l’idea di iperfemminilità. In un periodo in cui il Pakistan soffre di un conservatorismo estremo, l’esempio di Begum Nawazish solleva diverse questioni pungenti sulla sessualità nella società pakistana. Nelle sue interviste afferma di volersi divertire e intrattenere il pubblico, proprio come gli ospiti del suo talk show, ma attraverso le sue performance esprime sia il suo lato femminile che quello maschile, suggerendo che dietro il travestimento ci sia qualcosa di molto più profondo. L’intrattenimento è spesso stato usato come un efficiente strumento per mobilitare idee, dissipare pregiudizi e risolvere problemi.

Il Late Night Show con Begum Nawazish, il talk show più popolare in Pakistan, non è dunque ‘mero’intrattenimento: invia messaggi alla società pakistana. Ovvero, un maschio che inscena la femminilità può contribuire alla credenza secondo la quale gli uomini godono di molta più libertà rispetto alle donne; in tal modo una femmina può non venire facilmente rispettata e accettata come conduttrice di una trasmissione televisiva, come lo è Begum Nawazish. Rafforza inoltre la supposizione che la femminilità può essere, o è, appresa, laddove la mascolinità è attribuita alla nascita. Non solo, Begum Nawazish flirta con i suoi ospiti maschi e le pubblicità del suo show sono molto seducenti, così come quella della trasmissione indiana Big Boss, dove sarà ospite. Truccata e con indosso degli splendidi sari, fa commenti a sfondosessuale e domande sulla vita privata degli invitati; cammina e recita proprio come farebbe una donna pakistana. Nonostante la sua sfida contro l’idea che solo le donne possano essere femminili e che la società pakistana non possa accettare una persona che gioca con i ruoli di genere, Begum Nawazish inscena la femminilità solo durante gli show e mai al di fuori. Interpreta una vedova di mezza età, e racconta spesso aneddoti immaginari sul marito, come quello sulla loro luna di miele a Parigi.

L’esibizione di Begum Nawazish può anche essere interpretata come il modo in cui un uomo mostra a una donna come essere femminile o cosa è la femminilità. È una donna pakistana, una vedova, ma appare molto sicura, brillante, sfrontata e affascinante. È caparbia, non ha paura di esprimere opinioni su questioni sociali, attualità, politica nazionale e internazionale. Trascende molti se non tutti i limiti della società pakistana. Ma mentre insegna alle donne come essere donne abbastanza, comunica loro anche il messaggio secondo il quale una donna non può essere sicura di sé senza un bello sguardo, un trucco impeccabile, un meraviglioso sari indosso, un’acconciatura ben fatta. Una volta che la donna possiede tutto ciò, non le sarà complicato assumere un’aria sicura come quella di Begum Nawazish. Oppure è possibile che, come le drag queen, sia talmente ipersessualizzata e iperfemminilizzata da non rappresentare la donna ‘ordinaria’? Come definirebbe la mascolinità, e come avrebbe ipermascolinizzato se stessa se fosse stata un drag king? È molto interessante il fatto che Begum Nawazish abbia scelto di non inscenare la mascolinità nel suo show. Quanto sarebbe stata diversa l’accoglienza nei suoi confronti se avesse scelto di ‘intrattenere’ il pubblico con attività femminili (per esempio truccandosi), ma recitando da uomo? E come risponderebbe la società a una donna che inscena un uomo mentre presenta uno show? Oppure anche la società pakistana, come quella americana, ritiene che l’essere uomini sia un fattore naturale, che non può essere imparato? Forse le esibizioni di Begum Nawazish dimostrano che la società non crede che un uomo o una donna possano essere femminili senza la grazia, la bellezza, lo sguardo, il comportamento, e i modi del personaggio di Begum Nawazish?

Dal blog di Orbala per The Post Internazionale

Traduzione di Viviana Boccardi

Parla con lei

La giovane Maryam guerriera in Bahrein

di FRANCESCA CAFERRI

“Non crediamo nell’indipendenza della magistratura in Bahrein, questa sentenza è stata decisa fuori dalla corte”. Maryam al Khawaja non si lascia andare, mai. Venticinque anni, minuta, a prima vista non ha l’aria della combattente. Ma le parole che avete appena letto, pronunciate poche ore dopo che un giudice aveva condannato suo padre, Abdulhadi, il più famoso dissidente del Bahrein, all’ergastolo senza possibilità di appello, dimostrano che una combattente lo è davvero.

La vicenda del padre di Maryam è un simbolo dell’intera vicenda del suo paese: militante per i diritti civili da anni, a lungo ha vissuto in Europa. Tornato nel suo paese, non potè non unire la sua voce a chi chiedeva riforme e trasparenza quando la primavera araba è arrivata in Bahrein. Per questo nel 2011 fu arrestato con l’accusa di incitare la violenza: da allora non è più uscito dal carcere. Dietro le sbarre lo ha raggiunto a più riprese la figlia grande, Zainab, sorella maggiore di Maryam, che voleva portare avanti la lotta del padre.

Oggi è Maryam che ha preso il posto di entrambi: dirige l’organizzazione per i diritti umani nel mondo arabo fondata dal padre e gira il mondo per parlare della primavera abortita del Bahrein. “Ci siamo ribellati a un governo ingiusto come i libici e gli egiziani – mi ha detto qualche mese fa di fronte a un caffè fra le strade di Ferrara – ma nessuno ci ha dimostrato appoggio: troppo comodo parlare di diritti umani in alcuni paesi e dimenticarne altri”. Maryam ce l’aveva in particolare con la Gran Bretagna e gli Stati Uniti colpevoli, a suo dire, di aver chiuso gli occhi di fronte a quello che accadeva nel piccolo paese del Golfo. “Perché siamo un paese scomodo – mi spiegò – perché gli americani hanno da noi le basi della loro VI flotta e non vogliono problemi. Perché nessuno vuole che la popolazione sciita, che stava compatta dalla parte della rivolta, conquisti più spazio. Perché nessuno si sente di inimicarsi i nostri potenti vicini dell’Arabia saudita, che sono arrivati a schierare i loro tank nelle strade per mantenere lo status quo in Bahrein”. Maryam mi raccontò della sua famiglia: il padre e la sorella in carcere, i nipotini senza la mamma, lei in esilio in Europa. “Ma non voglio parlare troppo dei miei – mi disse – perché ci sono tante persone nella stessa situazione. E il problema è ben più ampio di un unico nucleo familiare. E almeno della mia famiglia si parla: molti sono semplicemente spariti nel nulla”.

Parlava con consapevolezza e determinazione. Finita la nostra conversazione, ritornò una ragazza 25nne in viaggio in una città mai vista prima, e si perse nelle vie di Ferrara, felice di concedersi qualche ora di stacco. È alla sua espressione allegra di quel momento che ho pensato quando è arrivato l’annuncio che l’ergastolo di suo padre era stato confermato senza possibilità di appello. Una ragazza normale con sulle spalle il peso di un paese intero.

Twitter: @francescacaferr

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TALEBANI! ABBIATE PAURA! ISTRUIREMO OGNI RAGAZZA!

L’istruzione è uno degli ideali più grandi dell’Islam. Per questo la figura di Malala Yousafzai terrorizza i talebani

http://www.gulabigang.in

gu

Un gruppo di donne ha deciso di fondare una ‘banda’ di giustiziere al femminile. Donne che difendono altre donne: le combattenti della Gulabi Gang, la ‘Banda Rosa’, contrastano metaforicamente e fisicamente le discriminazioni, le violenze domestiche e soprattutto la corruzione delle forze di polizia che permette e favorisce il mantenimento dello status quo. Per combattere contro queste sopraffazioni quotidiane e soprattutto per far uscire allo scoperto la condizione di totale oppressione della donna in India, due anni fa Sampat Pal Devi, 47 anni, ex venditrice di tè, decide di fondare la Gulabi Gang per difendere tante bambine, ragazze e donne come lei. Sampat Pal Devi non é solo una ‘combattente in rosa’. Il suo passato é simile a quello di tante altre bambine costrette a lasciare la scuola e a sposarsi con uomini che a malapena conoscono. La sua famiglia, infatti, la obbligò ad abbandonare la scuola e a sposarsi quando aveva appena 9 anni. Da allora la sua vita non é stata più nelle sue mani ma in quelle del marito.

Due anni fa la svolta con la decisione di non subire più e di aiutare tante altre donne come lei. Sampat é riuscita a radunare circa 400 combattenti provenienti da diversi villaggi della zona meridionale dell’Uttar Pradesh che, armate di lathi (il bastone tradizionale indiano) e di tanto coraggio, affrontano mariti e padri maneschi, stupratori, poliziotti corrotti. Gli uomini che le componenti della Gulabi Gang fronteggiano spesso reagiscono con la forza ma questo non le spaventa, con i loro sari rosa e i loro bastoni marciano verso i commissariati quando gli giunge notizia di indagini condotte male nei casi di abusi in famiglia; si radunano attorno alla casa di un marito violento minacciando ribellioni; impediscono con le unghie e con i denti i matrimoni delle spose-bambine. La Gulabi Gang vuole un’India più giusta, migliore per le donne ma anche per gli uomini, e sta lottando per ottenerla.

http://www.girlpower.it

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phoo

da: il manifesto del 1 agosto 2001
La regina dei briganti
E’ morta in un agguato, giorni fa, Phoolan Devi, indomito capobanda
nell’Uttar Pradesh. Violentata, si vendicò sanguinosamente, per anni tenne
in scacco polizia e esercito. Dopo una resa spettacolare, restò 11 anni in
prigione e, simbolo di riscatto delle caste basse, diventò parlamentare
MARCO D’ERAMO

Tornava a casa per il pranzo dal parlamento indiano la deputata Phoolan
Devi, quando mercoledì 25 luglio tre killer con il viso mascherato hanno
aperto il fuoco: raggiunta da sei pallottole, è deceduta prima di giungere
all’ospedale di New Delhi. Venerdì 27 luglio, al suo funerale ha partecipato
una grande folla; negli scontri seguiti alla cerimonia una persona è rimasta
uccisa e 30 sono state ferite. Particolari di cronaca che non danno la
misura della leggenda che circonda Phoolan Devi.
Misera contadinella analfabeta dell’Uttar Pradesh, sanguinaria brigante per
tre anni, detenuta per 11 anni e poi deputata, è infatti una delle eroine
indiane più celebri del secolo, protagonista di innumerevoli documentari,
biografie, ballate popolari e di un film – La regina dei banditi – girato
nel 1994 da uno dei maggiori registi indiani, Shekar Kapur, e visto in tutto
il mondo (ma in Italia ha circolato poco o niente).
“Bellezza dacoit (brigante)” era chiamata, o “Angelo vendicatore”, “Dea dei
fiori”, “Bella bandita”, “Ribelle dei burroni”, poiché la sua regione è
cosparsa di strettissimi burroni, ideali per nascondigli e agguati. Dalle
foto da giovane traspare sì un certo irrequieto fascino febbrile di una
figuretta scarna, ma gli ultimi scatti mostrano una donna di mezz’età
grassoccia, dal naso schiacciato a patata, tutt’altro che una bellezza. Però
la sua fama la rende simile a quei “banditi sociali” di cui ha parlato Eric
Hobsbawm in Bandits, volumetto tradotto da Einaudi (1969).
Tutta la vita di Phoolan Devi è avvolta da versioni contrastanti, fin dalla
data di nascita: 1957 per l’anagrafe indiana, 1963 secondo quanto raccontava
lei; sarebbe morta cioè o a 38 anni o a 41. Di sicuro è nata a Gorba Ka
Purva, misero villaggio dell’Uttar Pradesh sulle rive del fiume Yamuna, uno
dei 567.000 paesetti che costituiscono quella che Gandhi chiamava “l’India
reale”. La sua famiglia appartiene a una bassissima casta di pescatori, i
Mallah. Suo padre Devidin possedeva quasi mezzo ettaro di terra, ma la
maggior parte della terra di famiglia era andata a suo fratello e ai suoi
figli, dei cugini che ebbero grande influenza sulla vita di Phoolan,
soprattutto Mayadin che la picchiava e l’angariava. Così all’età di 11 anni,
in cambio di una vacca, Phoolan fu data in matrimonio a un vedovo di un
villaggio lontano che aveva il triplo della sua età, e che cominciò subito a
bastonarla. Dopo un anno Phoolan scappò e tornò a Gorba Ka Purva, mettendo
in imbarazzo la famiglia: scappare dal marito non si fa in India. Cercarono
di convincerla a suicidarsi, gettandosi nel pozzo del villaggio, ma rifiutò.
Da adolescente fu sposata a un altro cugino, Kailash, che era già sposato.
Poco a poco venne considerata una ragazza facile, una di quelle che si
bagnano nude da sole nella Yamuna (i fiumi in hindi sono femminili: il Gange
è la Ganga).
Nel 1979 (a 17 o a 21 anni), la svolta della sua vita. Una sera di luglio,
durante la festa di Sawan Dui, nel villaggio arrivò una banda di dacoit
guidata da un crudele brigante di casta alta, Babu Gujar. Non si sa se fu
rapita, se andò di propria volontà o se fu venduta: certo è che Phoolan fu
portata nelle gole, nel covo della banda dove Babu Gujar la violentò per 72
ore, finché la sera del terzo giorno il suo luogotenente, il giovane Vikram
Mallah (bello, alto, riccioluto e della stessa bassissima casta come dice il
cognome), sparò a Babu Gujar, salvò Phoolan, divenne capo della banda, suo
amante, e suo amato. Vikram insegnò all’indomita analfabeta ragazzina a
sparare, a nascondersi, a tendere imboscate, a sopravvivere alle retate
della polizia, a farsi rispettare dalle bande rivali: tutto il percorso
iniziatico del perfetto bandito. Unico particolare incongruo, Vikram svelò a
Phololan l’esistenza dei mangianastri e delle cassette di musica, di cui lei
si dimostrò subito ingorda.
In una regione grande quanto la Lombardia, a cavallo tra Uttar Pradesh e
Madya Pradesh, nella selvaggia natura di burroni e savane, la fama di Vikram
e della sua amante Phoolan crebbe tra i paria, poiché egli aveva ucciso un
boss di casta superiore. Nell’80 Vikram cadde in un’imboscata tesagli da due
reclute della gang, Sri Ram e Lala Ram, due dacoits di casta alta che
volevano punire Vikram di aver ucciso il precedente boss: dopo aver sparato
a Vikram, i due cloroformizzarono Phoolan, la cacciarono in un battello su
cui veleggiarono lungo la Yamuna fino al paese di Behmai dove la rinchiusero
in una capanna mefitica.
Per tre settimane, dopo ogni mezzanotte, uno sconosciuto, entrava al buio e
la prendeva, seguito da altri: erano tutti della casta guerriera Thakur, la
seconda – in ordine gerarchico – delle caste bramine, che la violentavano
fino a lasciarla svenuta. Il 23-esimo giorno i due uccisori di Vikram la
fecero uscire, ma la costrinsero nuda a tirare l’acqua dal pozzo del
villaggio, sotto gli sputi degli uomini. Quella sera un suo amico, prete di
un paese vicino, la liberò e la fece uscire da Behmai su un carro tirato dai
buoi.
Phoolan allora formò la sua banda e preparò la vendetta.
Il 20 febbraio 1981 i paesani di Behmai videro una ventina di persone
vestite da poliziotti traversare la Yamuna, stranamente guidate da una
ragazza, in uniforme da appuntato, con il rossetto alle labbra, le unghie
dipinte di rosso e un mitra appeso a bandoliera. Radunò gli uomini del
villaggio e li interrogò su Lala Ram Singh e Sri Ram Singh, pena la morte.
Gli uomini negarono di sapere dove si trovassero. Le case del paese furono
frugate, ma i due non saltarono fuori. Allora trenta uomini furono portati
sulla riva della Yamuna, fatti sdraiare e sparati. Ventidue furono uccisi.
Era il più sanguinoso massacro avvenuto da decenni. Inoltre era stato
compiuto da una donna. Infine era stato perpetrato da una donna di casta
bassa contro proprietari di casta alta. Tre crimini che resero Phoolan Devi
la donna più celebre, più odiata e più ricercata di tutta l’India.
Certo, di dacoit famosi ce ne sono stati tanti nel corso della storia
dell’India. Per esempio Kallua che – sempre nell’Uttar Pradesh – nel 1824
organizzò una banda sulle rive del Gange, e diventò così potente da avere
mille uomini ai suoi ordini, da proclamarsi rajà Kalyan Singh e da
saccheggiare la città di Bhagwanpur, prima di essere sconfitto da un
esercito di 200 gurka. Oppure il dacoit Mohar Singh che guidava una banda di
125 banditi e che si arrese nel 1972, per diventare negli anni ’90 assessore
comunale di Jora, dove con la giornalista americana Mary Anne Weaver ammise
candido di avere ucciso più di 500 persone: e lo ammise davanti al più
famoso poliziotto cacciatore di dacoit, che a sua volta si vantava di avere
ucciso in carriera 365 banditi. O, per finire, quel Veerappan che si
attribuisce un centinaio di omicidi e che l’estate del 2000 rapì l’attore
Raj Kumar, il più celebre divo del Karnataka.
Ma in tutta la storia dei dacoit vi sono solo tre donne, e Phoolan è una di
loro. Capo della gang, si considerava la reincarnazione di Durga, la dea
della violenza, della forza e della distruzione. Per due anni Phoolan fece
quel che ogni rispettabile bandito considera dovere e missione: uccidere,
rapire, sequestrare, ricattare, tendere agguati, sfuggire alla polizia,
corrompere politici, infiltrare altre bande. A ogni colpo riuscito, a ogni
minaccia schivata, la fama di Phoolan cresceva, come la taglia su di lei,
che arrivò a 10.400 dollari Usa, cifra astronomica per l’India dei primi
anni ’80. Finché cominciarono le difficili trattative per la resa, con
condizioni degne di uno studio legale di Wall Street. Ecco le condizioni
poste da Phoolan:
1) lei e i membri della sua banda non sarebbero stati impiccati; 2) tutti,
lei compresa, sarebbero stati rilasciati dopo otto anni; 3) non sarebbero
mai stati ammanettati; 4) sarebbe stato loro permesso di vivere nella stessa
prigione, di classe A (la migliore); 5) si sarebbe arresa in Madya Pradesh e
non sarebbero stati estradati in Uttar Pradesh (dove governavano esponenti
della casta Thakur massacrata a Behmai); 6) tutti i casi sarebbero stati
giudicati da appositi tribunali in Madya Pradesh; 7) la terra rubata dal
cugino al padre gli sarebbe stata restituita, 8) la famiglia sarebbe stata
reimpiantata in Madya Pradesh su terra demaniale; 9) insieme al montone e
alla vacca di Phoolan.
A negoziare fu il gabinetto della stessa Indira Gandhi, finché nel febbraio
1983, due anni dopo il massacro di Behmai, tutto fu pronto per la cerimonia
della resa che si tenne nella Chambal Valley. Phoolan era accompagnata dal
suo vice e amante, Man Singh, e da 12 membri della banda, scortata dal
disarmato sovrintendente della polizia del distretto di Bhind. La
attendevano 300 poliziotti, 70 giornalisti occidentali, altrettanti indiani,
troupes tv, e 8.000 spettatori.
Quando apparve, una colonna sonora di film uscì dagli altoparlanti. Vestiva
un’uniforme di polizia kakhi, con una bandana rossa alla fronte per tenere
indietro i capelli neri, un cartucciera a tracolla, una scimitarra alla
cintura e un fucile Mauser .315 a bandoliera.
Fa venire in mente il più celebre cangaçeiro brasiliano, Virgulino Ferreira
da Silva noto come “Il Capitano” o Limpio” (?1898-1938), ucciso anch’egli
sui 40 anni, e che – riferisce Hobsbawm – quando morì aveva addosso un
fucile Mauser .314, un coltellaccio lungo 67 cm, una cartuccera da 121
cartucce e un fazzoletto da collo di seta rossa. Cambiano i continenti, le
epoche, i generi sessuali, ma la tenuta resta uguale.
Phoolan s’inginocchiò davanti ai ritratti di Gandhi e di Durga (la loro
presenza era stata un’altra condizione della resa), poi si prostrò e toccò i
piedi al primo ministro del Madya Pradesh, Arjun Singh. Mentre i suoi
seguaci furono liberati presto perché accettarono di essere estradati in
Uttar Pradesh, Phoolan restò in prigione 11 anni, finché la fece liberare il
nuovo premier di quello stato, Mulayam Singh Yadav: come dice il cognome,
apparteneva a una casta di lattai, gli Yadav, bassa sì ma sempre superiore a
quella dei pescatori Mallah.
Phoolan diventò l’emblema della rivolta delle caste oppresse e si presentò
alle elezioni del 1996 nel partito di Yadav, il Samajwadi Party (Partito
socialista), dove vinse il seggio in una circoscrizione a maggioranza di
caste basse. Nel 1998 perse il suo seggio, ma nel 1999 lo rivinse con un
margine di 35.000 voti. Da qualche tempo le avevano ridotto la scorta a una
guardia del corpo.
Chi l’ha conosciuta era stupito dal suo fascino intriso di astuzia feroce,
dalla capacità di sopravvivere, dalla vitalità. La fredda lucidità: della
sua vita come capo dacoit rimpiangeva “il potere e l’autorità; quando
divenni dacoit e cominciai a fare la lista di chi mi aveva torturato e
abusato di me, e fui in grado di ripagarli con la stessa moneta, mi faceva
un piacere tremendo quando cadevano ai miei piedi. Il timore di un’arma è
qualcosa di potente. Ero la padrona, e chi mi aveva umiliato ora mi adorava.
C’era una canzone che cantavo ogni volta che me li portavano davanti, un
ritornello di un film hindi che diceva: “Dobbiamo ucciderti o lasciarti
andare?””. Un anonimo poeta aveva scritto che Lampio “ammazzava per gioco /
per pura perversità / nutriva gli affamati con amore e carità”.
Ancora, la durezza del dolore: “Voi lo chiamate stupro nel vostro
vocabolario manierato, ma avete idea di cosa è la vita in un villaggio
indiano? Quel che chiamate stupro avviene ogni giorno alle donne povere. E’
dato per scontato che le figlie dei poveri sono a uso dei ricchi. Per loro
noi siamo loro proprietà. I poveri non hanno cessi, così dobbiamo andare nei
campi e quando arriviamo, il ricco ci stende là, non possiamo nemmeno
falciare l’erba o mietere il grano senza che ci vengano addosso”.
Phoolan Devi incarnava lo stesso groviglio: da deputata, viveva con il
grassoccio marito agente immobiliare in un appartamento dove campeggiavano i
ritratti di Durga, di Buddha e di Gesù (i paria spesso si convertono al
buddismo e al cristianesimo, religioni che almeno teoricamente non prevedono
caste), e di Bhimrao Ambedkar, un intoccabile che ha partecipato alla
stesura della costituzione indiana: l’omicidio di Phoolan Devi cade a
proposito, visto che il partito al potere, il Bharatya Janata Party (Bjp),
partito fondamentalista hindu che rappresenta le caste alte, rischia una
mazzata nell’Uttar Pradesh.
Dacoit e deputata, la stessa Poolan Devi si situa al limite dell’antica
società latifondista (quella in cui emerge il fenomeno del banditismo
sociale, secondo Hobsbawm), e della nuova politica dell’India urbana.
Potremmo aggiungere il nome di Phoolan Devi, della “bellezza dacoit” alla
lista che compila Hobsbawm: “Janosik, Rosza Sandor, Dovbush, Doncho Vatach,
Diego Corrientes, Jancu Jiano, Musolino, Bukovallas,… e la schiera
infinita di guerrieri, veloci come cervi, nobili come falchi, astuti come
volpi. Ad eccezione di alcuni, nessuno ne aveva sentito parlare a 30 miglia
dal paese in cui erano nati, ma per la loro gente erano importanti come
tanti Bismark o Napoleoni…; non si ispirano, se si è individui
insignificanti, centinaia di canti popolari”. O film, come ha fatto la
reincarnazione di Durga, dal naso a patata schiacciata e gli occhi indomiti.

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Vita da donne in Qatar

da: The Post Internazionale

L’abaya è il simbolo femminile qatarino. Chi lo indossa lo fa per una scelta culturale, non per un’imposizione religiosa
Vita da donne in Qatar

(Reuters/Chris Helgren)

È inglese ma vive in Qatar, indossa l’abaya, il lungo vestito nero tradizionale dellapenisola arabica. Porta il velo ed è una scelta. Pragmatica più che identitaria. Yousra Samir è l’autrice di ‘Under your abaya’, il blog di moda dove dà consigli sulle ultime tendenze da abbinare o da portare sotto al proprio abito nero.“La mia è stata una decisione culturale, non religiosa” dice Samir. Portare l’abaya in Qatar è il simbolo di uno status sociale invidiabile, ossia quello del cittadino qatarino: una minoranza privilegiata di circa 300 mila persone. I cittadini qatarini sono i più ricchi del mondo, con un Pil pro capite di circa 100 mila dollari.“Ho sempre vestito all’occidentale, poi ho cominciato a mettere l’abaya quando frequentavo la Qatar University e molte delle mie amiche lo portavano. Lo trovavo molto elegante. Mi sono accorta che la gente in Qatar ti tratta con più gentilezza e rispetto se sei vestita con l’abito tradizionale delGolfo, pensano che sei una di loro e hanno un’attenzione particolare”, spiega dopo cinque anni che lo veste quotidianamente. Una scelta che permette anche una vita sentimentale: i ragazzi locali ti chiedono di portare l’abaya, spesso anche quello integrale che ricopre tutto il viso, occhi compresi. È una condizione, il margine di contrattazione è sottile.L’abaya è arrivato nel Golfo alla fine degli anni Settanta e, come spiega Samir, è un abito senza un connotato religioso. Anche la sceicca Al Mayassa, figlia dell’emiro delQatar e a capo dell’impero culturale e finanziario della Qatar Museum Authority, ha detto durante il suo discorso per Ted – ‘ideas worth spreading’ – che si tratta di unsegno identitario e culturale, non di un’imposizione islamica.Nel suo blog Samir scrive che nel Golfo le donne che portano il lungo velo hanno dei vantaggi rispetto alle donne che vestono abiti comuni: sotto al tuo abaya puoi mettere quello che vuoi, non devi portare magliette a maniche lunghe o pantaloni larghi che non ostentino le forme per rispettare la culturale islamica conservatrice del Qatar. Nonostante questa argomentazione abbia convinto Samir, molte donne che visitano ilQatar non portano l’abaya. Per questo alcune qatarine hanno organizzato la campagna ‘One of us’, sostenuta anche dall’Autorità per il turismo del Qatar, con cui richiedono di vietare l’esposizione di ginocchia e spalle in pubblico. Se sei nel nostro Paese, sei una di noi. E ti vesti come diciamo noi. Questa è la logica con cui cercano di preservare la loro tradizione, percependo l’invasione culturale occidentale come una minaccia, non come una risorsa.Samir racconta che quando arrivò in Qatar 9 anni fa, nell’emirato non vi erano fashion designers di abaya, mentre ora vi sono un numero infinito di brand e stiliste. L’inclusione sociale a cui dà accesso l’abaya in Qatar non è realizzabile da alcuna politica sull’integrazione degli immigrati, concetto estraneo al governo, che non riconosce la cittadinanza neanche ai figli di qatarine, se sposate con stranieri. Il latooccidentale di Samir riaffiora quando torna in Inghilterra. Si toglie l’abaya in aereo e non lo rimette fino al volo di ritorno. “Quando vado in Inghilterra ritorno ai miei jeans perché sento che c’è ancora una forte discriminazione verso le donne con l’abaya”. Prendendo un aereo della Qatar Airways si può assistere a una vera e propria sfilata di donne velate al check-in, che scendendo dall’aereo scompaiono per riapparire mischiate alla folla in abiti occidentali. Irriconoscibili.“Cambiare i miei vestiti non significa che ho una doppia identità: lo faccio per evitare forme di razzismo”, dice Samir. Lei è cresciuta in Inghilterra e si ricorda quando da bambina vedeva la madre sottoposta quotidianamente a episodi sgradevoli legati a barbarie e ignoranza. La insultavano, le sputavano addosso. “Dopo aver visto quello che ha dovuto patire mia madre, io preferisco ‘occidentalizzare’ il mio abbigliamento quando vado in Inghilterra, perché molte persone in Occidente associano ancora l’abaya a un’idea patriarcale di controllo sulla donna, dando per assodato che sia stato tuo padre o tuo marito a importelo per ragioni religiose”.Di fronte all’esposizione ‘Esclavas’ (schiave) della fashion designer spagnola Yolanda Dominguez, che ha realizzato bikini hard con la stoffa dei burka afghani, Samir sorride. “Le donne vengono trattate come oggetti in molte società del mondo in diversi modi, e questa mostra è una buona rappresentazione di ciò”, avverte, prendendo le distanze sia dalla scelta del bikini sia da quella del burqa. Un difficile compromesso tra consapevole scelta e pragmatica sopravvivenza sociale.

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5 risposte a “Donne che salveranno il mondo

  1. emma orbach pare abbia recuperato quello che noi neppure ricordiamo: lo stato naturale della nostra infanzai, in cui il desiderio non era peccato, in cui il contatto con la natura era semplicemente ovvio—

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