IL DEBITO PERPETUO
(per gentile concessione di Rizzoli Editore anche su Scribd)
Negli anni Settanta l’antropologo francese Jean-Claude Galey fece una scoperta sconvolgente: sulle montagne dell’Himalaya orientale s’imbatté in una forma di feudalesimo accentrata sul debito perenne, che usava il corpo delle donne quale pegno e pagamento.1
Questa regione – al confine tra Cina, India e Tibet – è da sempre oggetto di rivalità tra le popolazioni che l’abitano. La lotta per il potere si è svolta all’ombra di attività commerciali molto proficue, grazie alle quali è nata una casta di ricche famiglie usuraie. Nei secoli, costoro hanno utilizzato il denaro dato in prestito quale strumento di controllo del territorio e di oppressione della popolazione.
Letteralmente schiavi del debito sono i cosiddetti «vinti», la casta più povera dei contadini. Questi moderni servi della gleba orientali vivono da secoli in una situazione d’indebitamento perpetuo, che si tramanda di padre in figlio, dal momento che nessuno dei loro antenati è mai stato in grado di ripagarlo. Senza terra, né possibilità di vendere la propria forza lavoro su un libero mercato, i vinti sopravvivono contraendo ulteriori debiti con il signore-usuraio di turno. In cambio del lavoro ricevono abbastanza per sfamarsi, vestirsi e ripararsi dalle intemperie.
Mentre l’indebitamento perenne è legato alla natura del prestito, e cioè allo strozzinaggio che impedisce che nel tempo si possa ripagarlo, la logica economica di questa schiavitù scaturisce dalla scomparsa del risparmio, non solo come categoria finanziaria, ma anche come attività esistenziale. Nei secoli i vinti hanno metabolizzato il debito al punto da accettarlo quasi come una componente biologica della loro esistenza. Chiedere sempre nuovi prestiti è dunque un atto naturale, simile alla nascita e alla morte, come naturale è l’usura e la realtà perpetua dell’indebitamento. E dato che da sempre l’economia locale ruota tutta intorno a questi principi, nessuno è mai stato in grado di immaginare un mondo diverso.
Ma perché questa continua necessità di contrarre nuovi debiti? Di che cosa possono avere bisogno i vinti, nella condizione di abietta miseria in cui vivono? Le loro spese eccezionali sono in realtà solo di due tipi: matrimoni e funerali. Ma come ripagare la dote e gli interessi quando non si possiede niente? Con una merce di scambio vecchia quanto il mondo: l’uso del corpo delle giovani contadine.
Le spose vengono prima date in pegno e poi usate per «sdebitarsi» attraverso prestazioni sessuali. Dopo la prima notte di nozze diventano le concubine del signore-usuraio, e quando costui si stanca di sfruttarle personalmente le manda a prostituirsi in qualche campo di boscaioli dove rimangono per uno o due anni. Solo quando hanno guadagnato abbastanza per risarcire la dote, a queste disgraziate viene concesso di tornare a casa dal marito e iniziare la vita di mogli.
Queste pratiche barbare sono accettate da tutta la società, compresa la casta dei vinti. Per il nostro modo di pensare, sono insensate e disumane, oltre che assurdamente facili da abolire. Basterebbe non chiedere la dote alle future spose ed evitare così di sottometterle a questo trauma e a tanto degrado. Eppure nessuno arriva a questa ovvia soluzione.
Le famiglie degli sposi esigono la dote anche se sanno bene come verrà pagata. Com’è possibile? Semplice: sulle montagne dell’Himalaya il debito perpetuo ha ridisegnato la mappa esistenziale, inclusa quella morale lungo la quale l’individuo naviga dalla nascita alla morte. L’alterazione del codice comportamentale della società è così forte da rompere anche i legami più solidi e duraturi come quelli di sangue tra genitori e figli. E chi ne fa le spese, naturalmente, sono le donne e i bambini, deboli ma allo stesso tempo desiderabili, perfetti quindi per essere ridotti a merce di scambio.
Come ha potuto questo sistema consolidarsi al punto da sembrare l’unica strada percorribile? È stato possibile perché i signori-usurai controllano il potere economico, quello politico e sono anche i depositari del codice morale, le loro famiglie possono influire sulle condizioni di vita di tutti gli altri, e lo fanno seguendo il loro interesse, non astratti concetti di umanità.
La confluenza dei principi morali con quelli finanziari ha trasformato l’usura in una pratica accettabile, e il debito in un obbligo morale. Mentre per noi occidentali l’idea che il corpo delle donne sia usato nella restituzione di denaro dovuto, anche solo per una notte, è raccapricciante, per le famiglie dei vinti far prostituire le figlie, o vendere i bambini, per ripagare la dote o un prestito diventa una questione d’onore. Le scoperte di Galey, come abbiamo detto, risalgono agli anni Settanta, ma è dalla notte dei tempi che l’usura giustifica pratiche disumane simili.
Nell’antica Babilonia, già nel 2500 a.C., quando l’indebitamento iniziò a diventare diffuso, le donne cadute in disgrazia per l’insolvenza di padri, mariti o fratelli entravano a far parte della casta delle prostitute. Inoltre, a causa di una legge che vietava loro di portare il velo, erano facilmente distinte dalle più fortunate libere. E non veniva concesso loro alcun tipo di rispetto.
Da migliaia di anni l’umanità tutta porta sulle spalle questo fardello morale e chi ha avuto il coraggio di liberarsene è sempre stato condannato alla gogna e all’ostracismo. Anche oggi chi denuncia il debito come iniquo e sostituisce la comoda equazione morale «riscatto del prestito = onore» con la più problematica «usura = disonore» viene guardato male (questione complicata dal fatto che la distinzione tra interesse e usura è molto variabile a seconda delle epoche e delle situazioni politiche).
Dalla Russia bolscevica all’Argentina del 2001 fino all’Ecuador, tutti i Paesi che hanno scelto l’opzione default si sono appellati alla cosiddetta teoria del «debito odioso». Con questa espressione si indica un obbligo finanziario ingiusto, per esempio quello contratto dai governi non a favore della popolazione, ma per interessi di casta o personali. Pochissimi, però, accettano questa posizione; per la maggioranza il concetto di prestito continua a essere legato all’onore.
Ebbene, oggi alcune nazioni europee sono come il corpo delle donne e dei bambini sull’Himalaya o nell’antica Mesopotamia, diventano un pegno nelle mani del mercato finanziario che ne può fare ciò che vuole a causa di un debito contratto dai pater familias, quelli che prendono le decisioni, ovvero i loro governi. Questa mercificazione viene accettata da chi ne è vittima, sulla base di principi non economici ma morali. Come nell’antica Babilonia, il default trasforma chi lo sceglie in Paese-paria, al quale non si deve alcun rispetto, l’equivalente delle donne non velate.
Il default è dunque un disonore, una macchia indelebile, che fa precipitare la popolazione nella casta più bassa. Ecco perché oggi il Nord Europa guarda con disprezzo alla Grecia che ha ottenuto con la PSI, la Private Sector Initiative, uno sconto del 75 per cento sul debito contratto con il settore privato, il che equivale de facto a un default. Ecco perché nel linguaggio della Troika, degli eurocrati di Bruxelles e dei politici del Nord risuona un disprezzo quasi di ordine morale per questa nazione che non ha adempiuto agli impegni finanziari contratti. Ed ecco infine perché noi italiani dovremmo accettare a testa bassa e in silenzio l’umiliazione di un debito – contratto da una classe politica inetta e per interessi di casta – e il peso dell’austerità economica che l’Europa ci impone.
Forse l’immagine più efficace è quella dell’ex premier greco Papandreou che, sotto una pioggia battente, lascia come un mendicante il G20 tenutosi a Cannes nel 2011, alle sue spalle i due giganti europei: Merkel e Sarkozy. I signori con i quali la Grecia si è indebitata non sono loro, ma le banche delle nazioni che costoro guidano, e di cui difendono gli interessi. Basterebbe questo per illustrare il conflitto d’interessi che esiste al centro di Eurolandia: paradossalmente chi dovrebbe difendere l’unione monetaria protegge anche i creditori che l’assediano. Proprio come i signori-usurai dei villaggi dell’Himalaya sono i Bramini che scrivono il codice morale della società.
E infatti è a Merkel e Sarkozy che nel gennaio del 2010 Papandreou ha offerto come pegno la popolazione greca in cambio delle linee di credito necessarie per evitare la bancarotta totale; e sono ancora loro ad aver imposto a questa nazione una politica di austerità avvilente e che per ora non offre risultati positivi. Quest’umiliazione serve a calmare gli animi dell’elettorato tedesco e delle nazioni del Nord, a convincerli che alla radice del problema c’è la natura oziosa dei greci e non un debito odioso costruito dalle loro banche e dai politici della periferia. Serve anche a perpetuare l’identificazione dell’onore con il prestito.
Che differenza c’è tra la cultura barbara del debito perpetuo dell’Himalaya e la crisi del debito sovrano?
Nessuna.
Nei villaggi sul tetto del mondo far prostituire le figlie per pagare i prestiti contratti dai padri e dai nonni rientra nella difesa dell’onore della famiglia. Nell’Europa unita votare un governo che prende ordini dalla Troika, cessare di essere una nazione libera, rientra nella difesa dell’onore di un Paese. È ciò che è successo ai greci nel 2012. E coloro che hanno denunciato che si tratta di usura perché Stati come la Spagna e l’Italia si indebitano per pagare gli interessi del debito e così facendo ne generano altri, sono stati subito messi a tacere. Eppure l’anatocismo, questo il termine con il quale viene definito il calcolo degli interessi sugli interessi, è vietato da molte religioni e costituzioni; ma come vedremo nel corso di questo pamphlet solo le nazioni libere dal debito ormai hanno una voce.
L’anatocismo abbinato alle politiche di austerità produce un impoverimento della popolazione che rende viepiù impossibile risolvere il problema, e infatti in Italia nel 2012 è aumentato il rapporto debito-PIL. Viviamo insomma nella stessa situazione dei vinti dell’Himalaya: impossibilitati a rompere le catene del debito da una generazione all’altra, e gravati dalla scomparsa del concetto di risparmio e da una povertà perpetua. E l’aspetto più terribile è che tutto ciò sta diventando la normalità, tanto che la riduzione dello spread viene celebrata come una conquista economica, mentre l’obiettivo dovrebbe essere non dover monitorare questo indicatore. Più avanti vedremo come, dal crollo del Muro di Berlino, l’idea che uno Stato si debba tenere in piedi grazie a un sistema ininterrotto di prestiti ha fatto sempre più strada e il costo dell’indebitamento è schizzato in prima linea nell’esercito degli indicatori economici.
La moneta di scambio con cui compriamo il nostro presunto onore è oggi il futuro dei più deboli, i giovani, di cui ipotechiamo gli anni a venire riducendoli alla prostituzione del precariato, e i vecchi, che scelgono il suicidio piuttosto che l’umiliazione di mendicare. Questo sì è un prezzo che non possiamo permetterci di pagare. Il malessere dell’Europa non è solo economico, è un disagio psicologico che scaturisce dalla progressiva perdita della libertà, dalla restrizione dell’orizzonte del futuro e dall’aumento della violenza: è un costo altissimo che si manifesta con l’ascesa della destra nazista, gli scioperi generali in Grecia e gli scontri di piazza in Spagna fino agli scandali politici e al ritorno delle gambizzazioni in Italia.
Come siamo arrivati a tanto?
La risposta è nel colpo di coda di un capitalismo che all’inizio degli anni Ottanta, di fronte alle mutate condizioni mondiali non più favorevoli, ha usato l’Unione Europea per continuare a crescere nell’unico modo che conosce: violenza e colonizzazione, questa volta però in casa nostra. Un processo, quest’ultimo che i nostri politici hanno nascosto dietro l’offerta illimitata di crediti a buon mercato che arrivava dalle banche del Nord. Adesso che la grande abbuffata è terminata queste ci hanno presentato il conto, che comprende molte voci, tra cui l’impoverimento delle economie delle moderne colonie, e cioè la periferia, un serbatoio di manodopera a buon mercato e interi settori produttivi da acquistare a prezzo di saldo.
Lo stesso processo, inoltre, attraverso la crisi del debito sovrano corrode, pezzo dopo pezzo, la sovranità nazionale e la democrazia. Perché l’Italia non usa le riserve auree, seconde per grandezza in tutta Europa, quale garanzia del debito o mezzo per ridurlo? L’oro negli ultimi due anni è andato alle stelle moltiplicando esponenzialmente il valore delle riserve. Ma il nostro non appartiene più a noi, bensì alla Banca Centrale Europea che ha il diritto di veto sul suo impiego. Perché dobbiamo pagare l’IMU anche quando questa tassa riduce la propensione al consumo? Perché ci è stato imposto da Bruxelles.
Arriviamo così alla domanda chiave: a queste condizioni serve ancora votare? O forse è opportuno riconquistare la nostra democrazia esercitando la sovranità popolare in modi nuovi, in qualunque modo possibile, anche in Rete, esigendo che il nostro voto conti davvero qualcosa?
Esistono altre vie d’uscita, e le vedremo in queste pagine. Esiste un futuro nostro e lo visiteremo nei prossimi capitoli. Prima però è importante prendere coscienza di quanto è avvenuto fino a oggi.
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