Ho contratto la malattia sociale dei Bar, non so se sia grave o contagiosa, certe mattine mi basta chiedere alla Gaggia che sbuffa per avere voglia di tornarmene a letto. Che c’è questo tizio del locale sotto casa, ragazzone gioviale, malato di Formula1, parla sempre di quando è apparso in TV, amico personale di un famoso pilota del quartiere. C’è lui e la legione sua, una cricca senz’arte che occupa il piazzale antistante con i Suv e le Smart.
Volano cazzate di sport e poco altro, roba detta col vocione bello alto e una grinta borgatara da iniziati, ed è un po’ un casino quando devi passare per andare a fare colazione e ti tocca piegarti e insinuarti per evitare gli schiaffi, e loro sbracciano e si muovono a scatti proprio davanti la porta scorrevole. Il cittadino foresto che non è del giro ha possibilità estremamente limitate di esprimersi ma anche di passare inosservato, qui. La trappola comunicativa scatta in genere all’uscita, loro sono perfettamente collaudati e connessi, bancone e cassa e sfaccendati vari. Se provi a salutare e scappellarti le buone giornate di rito, loro sono troppo occupati a cazzarare per risponderti. Se pensi che qui non badino a queste cose, il giorno che esci senza salutare ti raggiungono alle spalle sulla porta con una raffica di enfatici: Arrivederci! Grazie, eh!!
Così i giorni successivi procedi per un paio d’isolati alla ricerca di un’oasi migliore. Il prossimo bar che metti alla prova sta pure lui d’angolo, caldo e accogliente, perché un Bar dovrebbe naturalmente tendere a fidelizzarti, nel Bar si crea senso, microcultura, perdio! Tale la pensano al Bar Umbro, dove l’attempato barista sfoggia le sonorità di un merlo indiano.
Buon giorno caro! Che ti faccio caro, un cappuccino, caro?
Caro in che senso, pensi tu che fatichi a svegliarti e odi le urla, soprattutto di mattina presto.
Non ti preoccupare, caro, ci penso io, caro. Faccio un cappuccio, caro? I cornetti stanno qui, caro.
Così ti risponde lui sin dalla prima volta che entri. Azzo, dici, ma perché mi deve chiamare caro tutte le volte, che magari invece sono pure un po’ stronzo?
Tra il fastidio e il senso di colpa mandi giù la colazione cercando una forma di dialogo smorfioso col banchista-bobtail, fino al giorno in cui capisci che attrezza questa muina comunicativa in parallelo blobbandoti con chiunque si agiti nel locale, da chi sta sulla porta d’ingresso a quello che tira la catena nei recessi del sottoscala, chiedendo pareri su tutto, sudando, rovesciando i cappuccini, gigioneggiando sempre interrogativo con la frusta affilata dei suoi “caro”, talchè alla fine nessuno è sicuro a chi cazzarola il tizio umbro stia rivolgendosi, ma comunque Caro.
Il prossimo bar l’hanno aperto che sta già tutto rintanato in una traversa laterale, una stradella infima, senza uscita. A parte che in questo genere di Bar il primo problema che ti attanaglia è la mancanza di luce, un’oscurità che sorge dal fondo perduto del locale e si mangia ogni emozione, si riverbera negli occhi piccoli del gestore, un articolo secco e baffuto che si colloca tra le ragnatele del soffitto e la bottiglia centenaria di Biancosarti che gli protegge le spalle allarmate e ti introduce al secondo problema di ordine filosofico, non banale.
In che lingua ci si parla davvero tra uomini? Sono i gesti, gli atteggiamenti verbali, la grammatica, la prossemica, la depressione sottesa o cos’altro? Così, dopo che la prima parola l’hai bruciata mostrandoti cortese come t’hanno insegnato, la parlata precisa, i modi rispettosi, e lui per qualche motivo s’è impaurito, è diventato deferente e falso, ha abbassato la voce, t’ha chiamato: “Signore”. Hai provato dunque a immedesimarti nel buio del locale, ti sei fatto ombra, hai evitato di guardarlo direttamente in faccia, sei rimasto composto in un accento vago da fossi di periferia. Ebbene quando te ne sei uscito dal bar zitto zitto e un po’ curvo, lui t’ha fatto un cenno vago ma incontrovertibile di saluto con la testa, l’hai visto dal riflesso dello specchio dove s’abbuiavano lo Stravecchio e l’Amaro del Trappista, l’hai sentito con un brivido, che forse se avessi insistito altri giorni lui t’avrebbe pure accolto tra i suoi fedeli di strada senz’uscita.
La verità è che il mio personale burn-out da bar mostra cicli di soluzione sempre più breve, i miei passaggi sono sempre più rapidi, i miei resoconti più sintetici, sono pronto a combattere il mondo.
L’altra mattina ripartendo da un posto che vale solo per il fagottino caldo di sfoglia con crema di latte e marmellata ai frutti di bosco, dopo duecento metri di strada che finivo appena d’accarezzarmi un fugace nirvana papillare, ho dovuto inchiodare violentemente i freni per evitare di entrare a fare il ruttino addosso a una signora che aveva lietamente ignorato il suo stop.
E’ stato spiacevole, così ho tirato giù il cristallo, ero ancora tranquillo, volevo solo dirle velocemente che culo aveva avuto a incontrare il mio riflesso repentino, è mancato niente. La mia macchina ha diciottanni, alle prossime elezioni può votare, m’avrebbe dato una bella mano sociale a rifarmela. Solo che un secondo dopo tutta la colonna che stava alle sue spalle ha iniziato a darci dentro con le trombe e io, con tutta l’assertività regalatami dalla crema di latte coi frutti di bosco, sono andato un metro avanti con la macchina per inquadrarli meglio, ho estratto il braccio dal finestrino e distintamente, come un direttore d’orchestra del rodimento, li ho mandati affanculo in blocco, tutti, e senza passare dal via.
la prossemica! ciao!